Consigli per gli acquisti: “D’altri tempi” di Stefano Tassinari
La memoria resta aperta su ciò che l’ha ferita mille volte, sui voli e i luoghi in grado di ridarle vita e, ancora, sui passi solitari della sera, compiuti avanti e indietro da chi cerca qualcuno che non si può trovare, se non dentro se stessi. È questa la riflessione che ci sembra racchiudere uno dei noccioli di D’altri tempi, l’ultima opera di Stefano Tassinari, una raccolta di racconti sugli anni ’70. Dieci racconti, ognuno su un episodio avvenuto in anno, dal 1969 al 1978, con al centro la violenza del potere costituito (espressa nella repressione ma anche nelle prepotenze e nei soprusi, più sottili e dolorosi, che essa assume all’interno delle istituzioni totali), ma anche e soprattutto la straordinaria vivacità – culturale, politica, sociale – di quegli anni, capaci di creare dei vincoli di solidarietà e un immaginario che trent’anni di riflusso non sono stati ancora capaci di cancellare completamente.
Stefano Tassinari è uno di quei rari scrittori che sanno tenere insieme la memoria, la Storia e una straordinaria capacità letteraria che fa sembrare molte delle sue pagine delle poesie scritte in prosa: non per niente, riteniamo il suo L’amore degli insorti una delle migliori cose pubblicate in Italia negli ultimi trent’anni.
In D’altri tempi, scorrono davanti ai nostri occhi storie piccole e grandi, registri narrativi diversi, opposti punti di vista, in un rincorrersi continuo di passato e presente: si inizia con la storia del mitico Brian Jones raccontata da Brian Jones stesso, dopo la sua morte, e si finisce con la storia di Yoghi, uno degli esclusi della storia, uno dei tanti ragazzi problematici internati nei manicomi, raccontata alla vigilia dell’entrata in vigore della legge Basaglia. E si passa per l’omicidio di George Jackson (raccontata da un detenuto, bianco, di San Quentin), per quello di Francesco Lorusso (narrato da un compagno qualsiasi), per quello di Roberto Franceschi (visto attraverso gli occhi di due venticinquenni del 2003, che hanno ancora nel cuore, recente, il ricordo del G8 di Genova), per la Domenica di Sangue di Derry (racconto corale, in cui si intrecciano diversi punti di vista, delle vittime e dei carnefici), per la terribile morte dell’attrice Carolyn Lobravico (espressa attraverso il ricordo di un infermiere del manicomio criminale di Pozzuoli), per il Festival del proletariato giovanile di Parco Lambro del ’75 (ripercorso attraverso la narrazione di uno dei partecipanti, intervistato da un ragazzo dei giorni nostri critico verso quel periodo che non capisce), per la triste storia dei desaparecidos argentini (attraverso la lettera di un desaparecido alla moglie, ancora non stanca di cercarlo) e per quella, lacerante, di Salvador Puig Antich, ultimo prigioniero politico ad essere garrotato nella Spagna franchista, nel 1974 (e qui è proprio Salvador a raccontare i suoi ultimi istanti).
Storie diverse, dunque, con rese narrative diverse. Alcuni racconti forse rimangono un po’ troppo accennati, altri invece esplodono in tutta la loro potenza, spiazzando il lettore, che in poche pagine si trova al centro di storie dolorose e sconvolgenti. E tra i racconti più riusciti c’è certamente quello delle ultime settimane di vita di Salvador Puig Antich, che si spinge fino alla narrazione dei suoi ultimi istanti, ricordati attraverso la voce, sempre più flebile e lontana, dello stesso Salvador. Poche righe straordinarie, che hanno la stessa forza e potenza delle immagini della scena di questa garrotazione nel film del 2006 di Manuel Huerga (vedi):
Prima mi fasciano il collo con un grande anello di ferro, poi un aiutante del boia verifica che le mie vertebre cervicali siano perfettamente posizionate all’altezza del foro praticato nel legno. Adesso è tutto a posto, a parte la Storia, che sta per incamminarsi su una strada sbagliata. Qualcuno dà il via all’esecuzione. Sento lo scricchiolio del legno, e poi il cigolio della vite che comincia ad entrare nel tronco della garrota, e subito dopo il freddo dell’anello che inizia a stringermi il collo, e poi la punta della vite che mi tocca la zona più alta della spina dorsale. Istintivamente cerco di ritrarmi, ma questa specie di collare me lo impedisce. Tutto avviene rapidamente, anche se a me sembra il contrario. La punta inizia ad infilarsi nella pelle, mentre l’anello, sempre più stretto, mi riduce il respiro. Sono gli ultimi istanti. Vorrei gridare “viva l’anarchia!”, ma non ho abbastanza fiato e allora lo penso soltanto. È un attimo: avverto il sangue che mi bagna la schiena, la punta che cerca un passaggio tra due vertebre, il collare che mi soffoca, lo sforzo del boia, le voci delle guardie e del giudice militare, i miei lamenti, il dolore fisico, ancora il sangue, ancora la punta, ancora il cerchio, ancora il sangue, ancora la punta, ancora il cerchio… Crac.
Un libro da leggere, insomma. Magari mentre si riascolta Ma chi ha detto che non c’è di Gianfranco Manfredi.
Stefano Tassinari/ D’altri tempi/Edizioni Alegre/13 euro