1999-2019… Vent’anni di Euro, ma niente da festeggiare.
Questo inizio di 2019 porta con se anniversari belli, come i 60 anni della rivoluzione cubana, ed altri decisamente più infausti. Il primo gennaio del 1999, infatti, nasceva l’Euro, inizialmente solo come valuta e poi, dal 2002, anche come moneta e banconota fisica. Vent’anni rappresentano un lasso di tempo più che sufficiente a stilare un primo, nemmeno troppo sommario, bilancio. E visto che alle nostre latitudini politiche persiste una sorta di tabù sui ragionamenti critici rispetto all’UEM, ci ha pensato così Bloomberg (non proprio una centrale operativa dell’euroscetticismo) a fare due conti su chi ha vinto e chi ha perso con l’introduzione della moneta unica (leggi). Domenica scorsa, prendendo spunto da questa inchiesta, anche il giornale di Confindustria ha dedicato due intere pagine alla ricorrenza e la sostanza è grosso modo la stessa: a trarre vantaggio dall’introduzione dell’euro è stata soprattutto la Germania (ma va?), mentre a rimetterci nettamente è stata soprattutto l’Italia, insieme a Spagna e Francia. Vale la pena riportare alcuni stralci del lungo articolo del Sole: Dalla nascita del mercato unico europeo nel 1979 fino alla crisi del sistema monetario del 1992, la lira è stata svalutata 7 volte. Questo ha tenuto a galla la competitività del sistema imprenditoriale italiano. Come effetto collaterale ha aumentato l’inflazione (secondo i dati Bce) del 223% in termini cumulati, contro il 103% medio europeo. La produttività in quegli stessi anni è rimasta inferiore rispetto a quella di altri Paesi che sono entrati nell’euro: tra il dicembre 1978e il 1998, secondo i calcoli di Intesa San paolo su dati Ocse, la produttività delle aziende italiane è aumentata infatti del 45%, mentre quella delle concorrenti tedesche ha segnato un +55% e quella delle francesi un +58%. Dopo la nascita dell’euro il gap è stato però ben maggiore: in 20 anni la produttività in Italia è cresciuta del 5%, in Francia del 20,6% e in Germania del 24,4%. Questo è il problema: l’impossibilità di effettuare svalutazioni, accompagnata a una scarsa produttività rispetto agli altri Paesi, ha indebolito la competitività dell’Italia. Cosa abbia a che fare tutto questo con la vita e i salari di milioni di proletari lo spiega bene, sempre sul Sole, Giulio Sapelli (altro noto rivoluzionario): un sistema a cambi fissi elimina strutturalmente la possibilità di operare svalutazioni monetarie che favoriscono la collocazione sui mercati esteri di merci altrimenti meno competitive per l’alto costo di vendita. Se non si realizzano aumenti costanti della produttività del lavoro in grado di raggiungere gli stessi risultati di competizioneattraverso la riduzione dei costi via efficienza tecnica e qualità idiosincratica delle produzioni e dei servizi non si può che ricadere nelle svalutazioni interne, ossia nella riduzione dei costi tramite la scarsa efficacia tecnologica e la riduzione dei salari. Una fotografia puntuale del processo di impoverimento a cui abbiamo assistito in questi 20 anni. Non bisogna dunque stupirsi se, secondo le elaborazioni di Ref Ricerche (sempre per il Sole 24 Ore), il reddito disponibile delle famiglie al netto dell’inflazione è aumentato in media nell’area eurpo del’11,3%, con punte del 21,2% in Francia e dell’11,8% in Germania, mentre in Italia si è invece registrato un calo del 3,8%. L’indifferenza, se non l’adesione entusiata, mostrata in questi anni da larga parte della sinistra nei confronti della moneta unica spiega la difficoltà nel ritrovare una connessione (quantomeno sentimentale) con il suo “popolo” come se la moneta fosse questione di matematici e non di Re, di Imperatori, di parlamenti. Lo ribadiamo per l’ennesima volta: la rottura della Ue e della Uem non significano di per sè la gloriosa rivoluzione proletaria e l’instaurazione del socialismo, ma rappresentano la conditio sine qua non per riportare la lotta di classe su un terreno in cui i salariati abbiano almeno alcune chanche di vittoria. Tutto il resto è fuffa.