La funzione d’onda e la funzione dell’Onda
Le manifestazioni del 12 dicembre, ma ancor più quelle del 28 novembre hanno segnato (a nostro avviso) l‘esaurimento della “Fase 1” del movimento studentesco, almeno per come l’avevamo conosciuto fino ad ora. L’esperienza, prima ancora che l’analisi politica, insegna come ogni movimento, anche se con tempi e modalità proprie, tenda a svilupparsi secondo un andamento sinusoidale; una caratteristica che questa volta era contenuta nel termine stesso scelto dagli studenti per autorappresentarsi: l’Onda. L e ragioni “tecniche” di questo riflusso fisiologico possono essere molteplici: la stanchezza accumulata dopo mesi di continua mobilitazione, il profilarsi all’orizzonte degli esami, la scadenza del trimestre col relativo carico di compiti in classe e interrogazioni, il peso delle numerose assenze e così via elencando fino ad arrivare a quello scoglio contro cui si sono quasi sempre infrante anche le migliori intenzioni autunnali, le vacanze di natale. A queste vanno a sommarsi le ragioni più “politiche”, se la lotta rimane su un piano esclusivamente vertenziale (il decreto) e corporativo (gli studenti) una volta venute meno le ragioni della protesta, perché il decreto è stato approvato e/o la sua applicazione rinviata, è inevitabile che alla lunga verranno meno anche gli stimoli alla mobilitazione. Occorre quindi aprire una riflessione collettiva per evitare che venga dissipata quell’enorme energia e disponibilità alla partecipazione che si è manifestata nelle piazze italiane in queste settimane. Anzi, ribaltando il ragionamento, bisogna capire come capitalizzare quanto si è prodotto in questi mesi in termini di ricomposizione sociale e di classe. Perché è questo, al di là degli sterili proclami velleitari, delle dichiarazioni “scarlatte”, il compito che ci si pone davanti nel medio periodo: riconnettere ciò che il capitale scompone, unire laddove i padroni dividono, riconquistare, come classe, la propria autonomia politica e culturale. La domanda, epocale, è come riuscire a far questo. Quali strumenti? Quali rivendicazioni? Quali forme organizzative? Siamo sinceri, non lo sappiamo (anche perché, se lo sapessimo, ci trasferiremmo a Treviri a scrivere libri o assalteremmo i Palazzi d’Inverno) e, altrettanto sinceramente, diffidiamo dalle ricette preconfezionate. Però, le piazze del 12 dicembre, quelle che hanno visto sfilare insieme il sindacalismo di classe, gli studenti, i precari e i migranti indicano, secondo noi, alcuni possibili terreni di sperimentazione. Non è un caso che il giorno prima dello sciopero generale il governo abbia fatto dei sostanziali passi indietro sui tempi e le modalità di attuazione della Riforma Gelmini. La speranza, neanche troppo velata, è quella di evitare che si saldino diversi fronti di lotta, magari sull’esempio della conflittualità esplosa in Grecia. E non è che lo diciamo noi, col “colbacco bolscevico” sugli occhi, lo ammettono candidamente loro stessi(leggi qui). La crisi tanto evocata è ormai alle porte tanto che perfino Confindustria è costretta ad ammettere il suo devastante impatto occupazionale (leggi qui), senza contare poi quello sterminato esercito di lavoratori atipici che formalmente non verranno nemmeno licenziati, ma più “semplicemente”, non vedranno rinnovato il proprio contratto. E’ su questo piano che vanno sperimentate e praticate forme di lotta e agitazione in grado di dare sostanza a quello slogan tante volte ritmato nei nostri cortei: noi la crisi non la paghiamo. E se l’Onda non percepisce che è questa la sua “Fase 2”, c’è il rischio concreto che il movimento si spenga qui oppure si accontenti di riproporre, in sedicesimi, quanto mostrato in autunno. E in entrambe i casi avremo perso l’ennesimo treno.