Tiriamo le somme: un anno di lotte di classe
E’ passato già qualche giorno, pensiamo che si possano fare alcuni bilanci. Anzi, a mente più fredda crediamo sia giunto il momento di fare una prima valutazione delle lotte che hanno caratterizzato questo autunno. Parziale, e probabilmente ancora troppo vicina agli eventi, ma necessaria. Per capire come ripartire dopo le vacanze natalizie. E per ragionare insieme, discutere, su ciò che di buono e di meno buono è avvenuto nelle lotte di classe in questo paese.
In primo luogo, a differenza degli anni (decenni?) passati, quest’anno ha visto la rinascita politica degli operai. Dimenticati troppo spesso, debellati teoricamente dalle analisi della sinistra, nessuno ha voluto ricordare ai vari soloni, novelli Marx in sedicesimi (e sarebbe già un onore), che il lavoro dipendente salariato in Italia è in costante aumento. E che in questa tipologia lavorativa, il manifatturiero occupa più o meno la stessa importanza quantitativa e qualitativa di trent’anni fa. Sembra assurdo anche solo pensarlo, ma è così e andrebbe spiegato ai teorici della fine del lavoro materiale. (Per tutte le fonti e i dati, leggersi il fondamentale “Nord operaio”, ed. il Manifesto). Oltretutto, l’Italia è il secondo paese industriale d’Europa e il quinto del mondo. Questo tanto per dire che, se c’è un paese che fonda la sua economia sulla figura dell’operaio che trasforma materialmente con il proprio lavoro degli oggetti, è proprio il nostro. Purtroppo, è anche il paese dove le analisi strampalate sulla fine del lavoro attecchiscono meglio. Questi si che sono fenomeni culturali che andrebbero studiati, ma non è qui il luogo per farlo.
Detto questo, i lavoratori salariati hanno rioccupato prepotentemente la scena del dibattito pubblico. Sono sempre esistiti e sempre esisteranno, de localizzati, precarizzati, atomizzati che siano. Ma in questi anni avevano perso la loro rappresentanza politica che ne amplificava le voci e ne coordinava le lotte. Diciamo subito che niente e cambiato, e nessun luogo politico ha saputo raccoglierne il bisogno di rappresentanza. Ma a tutto questo, per un certo periodo, ha fatto fronte la FIOM, che si è sobbarcata non solo l’aspetto più propriamente sindacale, ma ha colmato per un attimo l’assenza della politica con un protagonismo forse senza precedenti, ma che ha fatto capire anche solo per un istante quanta e quale sia la forza politica, e diremmo anche morale, di cui la classe lavoratrice è ancora portatrice. Una forza potenzialmente devastante, e anche per questo rivoluzionaria. Ci sono stati momenti di lotta di classe a cui non eravamo abituati. E difficilmente ripetibili. La FIOM ha fatto tanto, oltre ciò che le competeva. Adesso, o meglio da quel 16 ottobre, la palla spettava alla politica, che puntualmente non si è presentata. Si perché il vero dramma politico di questi trent’anni appena trascorsi non è stato Berlusconi e il berlusconismo, ma l’assenza del lavoro dal dibattito e dall’iniziativa politica italiana. Venuto meno il PCI, partito moderato e riformista, ma partito del lavoro, è scomparso dalla politica italiana proprio il lavoro. Con tutto quello che ne è conseguito, in termini di arretramento dei diritti sociali, sindacali e politici. Che di riflesso si sono abbattuti su tutti gli altri settori della società. Anche non lavorativi. L’arretramento storico che sta attraversando una istituzione di democrazia sociale come è l’università pubblica è dovuto, di riflesso, all’assenza di un movimento di lavoratori che porti avanti in Italia le lotte di classe. Tutto questo in questo anno non è cambiato, e il protagonismo della FIOM è destinato ad un nulla di fatto, oltre qualche auspicabile (e sempre più dura) conquista sindacale. Perché non c’è una politica che ne sappia raccogliere gli spunti e generalizzarli. E’ triste doverlo ammettere, ma un sindacato, per quanto di massa e per quanto maggioritario, non può sostituirsi a qualcosa che non può essere: un partito, o un movimento organizzato che rappresenti il lavoro.
Detto ciò, passiamo al secondo evento che ha caratterizzato il tiepido (ma per fortuna non freddo come altri) autunno italiano, e cioè la protesta studentesca. Ora, le proteste studentesche autunnali sono qualcosa con cui ci si può rimettere preciso l’orologio: puntualmente, da fine ottobre all’inizio delle vacanze natalizie, gli studenti sono in mobilitazione. Con più o meno fortuna. Pensiamo al clamore suscitato dall’”onda” di soli due anni fa. O delle proteste di massa contro la riforma Moratti del 2005. O delle proteste del 2003 sulle tasse universitarie e contro la guerra in Iraq. O di quelle del 2001 sospinte dall’ondata no-global che portò alle giornate di Genova. E in mezzo a tutto ciò, le sempiterne occupazione delle scuole e delle facoltà, i cortei scolastici, ecc..
Perché questa protesta rappresenta qualcosa di diverso dalle precedenti ritualità studentesche? Per due motivi fondamentali, tutte e due probabilmente non voluti ma che hanno fatto si che da semplice sfogo pre-natalizio la mobilitazione studentesca sia divenuta un fattore importante anche nelle lotte di classe di questo paese:
– il primo motivo è che è in atto nel paese una resa dei conti contro Berlusconi, e qualsiasi genere di protesta è stato e viene tutt’ora amplificato dal partito di “Repubblica” in chiave anti-governativa. Dopo anni di fedele credo mercatista e neo-liberista, abbiamo visto proprio Repubblica appoggiare le lotte degli operai della FIOM, come dei precari non sindacalizzati ma non per questo meno incazzati. La lotta contro il capitale sembrava di nuovo in auge al giornale di Ezio Mauro. Abbiamo visto Repubblica osannare il tentativo degli studenti di invadere Palazzo Madama. Abbiamo visto Bersani salire sui tetti. Abbiamo visto tutti i dirigenti del centrosinistra sfilare in questi mesi vicino agli operai in lotta. Si, proprio loro, proprio quelli che qualche mese o anno fa approvavano riforme del mercato del lavoro, riforme delle pensioni, riforme del welfare: tutte in senso liberista! Bene, da qualche mese invece hanno scoperto che per raccogliere qualche voto e fomentare l’odio verso il loro nemico-amico preferito, il Berlusca, va bene per l’Italia anche la lotta di classe. Sappiamo già che molti ci cascheranno, e voteranno convintamente il Di Pietro di turno certi che finalmente la sinistra abbia ricominciato a fare la sinistra. Per il momento questo non ci interessa. E’ fondamentale però non caderci noi, in questo gioco. Ed è fondamentale soprattutto per le mobilitazioni studentesche di questi mesi, attirate dalle sirene dell’opposizione. Per quanto riguarda la maniera di non cascarci, rimandiamo alla fine di questa analisi.
– Il secondo evento, fondamentale, è stata l’alleanza di interessi e di lotte che ha visto studenti e lavoratori insieme. Almeno in due giornate, il 16 Ottobre e il 14 Dicembre, gli studenti e i lavoratori hanno manifestato uniti. Due grandi giornate, per diversi motivi, ma che hanno fatto intravedere a sprazzi una unità di intenti che non si vedeva da molto tempo da queste parti. Almeno in queste due giornate la centralità studentesca è stata sostituita, o oscurata, dall’unità delle lotte. E’ stato un passaggio fondamentale, potenzialmente rivoluzionario, se fosse perseguito con maggiore scrupolo. Il 14 dicembre è stata sostituita una visione studento-centrica delle mobilitazioni ad una vera e proprio forma di lotta di classe. Gli studenti, insomma, hanno perso, per un attimo, la loro centralità esclusiva, diventando una delle componenti di quella piazza. Importante, trainante, ma non esclusiva. Insieme a loro c’erano i precari, i lavoratori, la FIOM, i senza casa, i movimenti, i centri sociali, i cittadini indignati. Come il 16 Ottobre.
Detto ciò, come sviluppare questo movimento anche dopo il periodo natalizio? Siamo in una fase in cui rischiamo seriamente il riflusso dopo la mareggiata. Abbiamo due strumenti nelle nostre mani per dare sostanza a tutto quello che è stato prodotto fino ad ora: per prima cosa, cercare di mantenere questa unità delle lotte fra lavoratori e studenti ed estenderla. In secondo luogo, iniziare a fare delle proposte: proprio per evitare di cadere nel giochetto della funzionalità all’opposizione democratica in parlamento, il solo modo che abbiamo per smarcarci dall’abbraccio mortale del PD è quello di elaborare un pensiero politico che si traduca in proposte concrete, che rendano evidente l’alterità che questo movimento rappresenta non solo verso il governo, ma verso tutte le forze parlamentari. Iniziare a delineare un programma di proposte politiche che disegni un Italia più democratica, più egualitaria, più libera. Per non morire il giorno dopo la cacciata del nano dal Governo. Per non ritrovarsi, un minuto dopo un eventuale cambio di governo, a non essere più utili all’opposizione e ad essere scaricati mediaticamente e politicamente. Altre volte è accaduto proprio questo, e più in generale è questo l’aspetto centrale della crisi che stanno attraversando i movimenti: quella di non riuscire più ad avere un idea comune, un percorso condiviso che al di la delle normali differenze tenga tutto unito. Un programma minimo da realizzare, o da conquistare. Un punto di riferimento, anche ideale, che ci dia il senso complessivo di quello che stiamo facendo. Al di la delle singole battaglie, noi non stiamo lottando per abbattere la Gelmini o per ridurre i turni a Pomigliano: stiamo lottando per un Italia diversa, migliore. Noi diremmo socialista, se questo termine non generasse in molti assurde prese di distanza. Sarebbe ora che ritrovassimo quello spirito, altrimenti anche questa volta il tutto si risolverà in un nulla di fatto. Pensiamo per un attimo alla sinistra latinoamericana: la lo sforzo della visione comune è stato fatto, e ha portato a risultati enormi. Ha portato i movimenti, e le sinistre in generale, al potere. Ha portato ad una condivisione del potere di sinistre divise tanto e più di quelle europee. Ma le differenze sono state accantonate. Ritrovare questo spirito comune sarebbe un passo avanti importante, provarci è il nostro compito politico dei prossimi tempi.