letti e riletti
“Ma come, non hai ancora letto la danza immobile?” Ricordo chiaramente ancora oggi la faccia perplessa del compagno che mi pose questa domanda. Da pochi giorni avevamo occupato uno stabile a Pietralata e come accade sempre in questi casi le chiacchiere a fine giornata si protraevano lunghissime, innaffiate dalla “ottima” birra in lattina lasciata a scaldarsi per ore in qualche angolo e stimolate da quella voglia sincera di conoscersi, di condividersi, che forse solo un’occupazione sa regalare. Facce diverse, esperienze diverse, percorsi diversi, eppure la percezione quasi epidermica di aver forse compreso il significato profondo della parola compagno. Lo ricordo chiaramente perché fino ad allora non avevo mai letto, se non per dovere, un libro di narrativa. Non che non leggessi, questo no. Divoravo quotidiani e riviste politiche, mi imbottivo di saggistica e libri di storia, ma Manuel Scorza, fino a quel giorno, non sapevo neanche chi fosse. Avevo passato gli ultimi anni a leggere e a tentare di comprendere “i classici”: Marx, Engels, Lenin e poi Trotsky e Mao e il Che…, come un ossimoro vivente mi ero presentato, sedicenne, in un campeggio di Riccione con l’ideologia tedesca in mano, ero orgoglioso d’essere riuscito ad arrivare fino in fondo al primo libro del Capitale, conoscevo la differenza tra valore d’uso e valore di scambio, intuivo il senso della legge sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, sapevo che l’imperialismo era la fase suprema del capitalismo e inorridivo di fronte al cretinismo parlamentare, ma no, fino a quel momento non conoscevo ancora la storia di Nicolàs e di Santiago. Fu dunque il bisogno di comprendere lo stupore sulla faccia di quel compagno a spingermi ad entrare in una libreria per uscirne, subito poco dopo, con la mia prima copia del libro di Scorza in mano. E dico la prima perché di copie, da quel giorno, credo di averne comprate per me almeno altre quattro e di averne regalate in giro almeno una ventina. Leggerlo fu come aprire una porta per poi scoprire d’aver ignorato, fino a quel momento, un intero mondo. Con La danza immobile la letteratura s’era scrollata di dosso la polvere del dovere scolastico e s’era riempita dei miei simboli, del mio immaginario, delle mie lotte e dei miei sogni. Una rivelazione. Era possibile parlare della rivoluzione sociale anche in un altro modo, anzi, bisognava parlarne anche in un altro modo perché, come fa dire Scorza a Santiago: è imprescindibile fare politica e poesia. Quando un rivoluzionario non è un poeta finisce per essere un dittatore o un burocrate, un traditore dei propri sogni… Capirete dunque perché, pur avendo letto dopo di questo decine di libri, alcuni dei quali autentici capolavori, per chi scrive questo romanzo abbia smesso le vesti di un libro fra i tanti e sia diventato “il” libro. E capirete anche le ragioni di questa recensione a oltre 25 anni dalla pubblicazione. Scorza, per quanto ci riguarda, è stato forse una delle massime espressioni, insieme a Gabriel Garcia Marquez, del realismo magico latinoamericano. E proprio grazie a questo stile narrativo è stato in grado di raccontare come nessuno prima di lui le lotte dei contadini peruviani contro la privatizzazione delle terre comuni, un’epopea raccolta nei cinque volumi del ciclo andino: Rulli di tamburo per Rancas, Storia di Garabombo l’invisibile, Il cavaliere insonne, Cantare di Agapito Robles e La vampata. Con la danza immobile, però, Manuel Scorza abbandona gli altopiani delle Ande e le lotte degli indios contro “il mostro” che lo avevano reso celebre per raccontarci le passioni di due guerriglieri esuli in Francia. In un lussuosissimo ristorante di Parigi uno scrittore squattrinato cerca di convincere un editore a pubblicare il suo libro anticipandogli la trama. Nicolàs, comandante dell’Esercito Rivoluzionario del Perù sta per essere giustiziato, condannato a morte per aver tentato di fuggire dalla colonia penale del Sepa. Una fuga disperata lungo i fiumi amazzonici per cercare di rivelare ai propri compagni l’esistenza di un delatore tra le fila del movimento e durante cui, tra passato e presente, sogno e realtà, fantasia e delirio onirico, ricorda come sia arrivato fin li. Ricorda le lotte giovanili, l’addestramento a Cuba, la clandestinità in Europa, l’incontro con Francesca, l’amore per lei sacrificato alla rivoluzione. E qui il ricordo si fa struggente, disperato. Nicolàs si chiede se ne sia davvero valsa la pena o se non abbia fatto bene Santiago ad abbandonare una lotta che li avrebbe inevitabilmente portati alla morte e a restare vivo pur di rimanere accanto a Marie Claire, che non sia l’amare l’atto realmente rivoluzionario? Un contrappunto tra i conflitti interiori di due militanti comunisti alla vigilia del rientro in patria dove intendono accendere un foco guerrillero. Storie di rivoluzionari che rimbalzano tra Mosca e Pechino, tra Lima e L’Avana e che Scorza descrive con un rispetto, una sensibilità, un’ironia e a volte un erotismo impensabili da descrivere in queste poche righe ed in cui è contenuta tutta la peculiarità degli scrittori latinoamericani. Anche l’uso della prima persona quando parla Santiago e della terza persona quando si tratta di Nicolàs sembra rimandare alla biografia dello scrittore, quasi non si perdonasse alcune scelte non fatte, alcune occasioni perdute. E’ una forzatura? Non lo sappiamo, fatto sta che tra i due, pur comprendendo le ragioni di entrambe, Scorza sceglie in maniera inequivocabile, e sceglie Nicolàs, sceglie la Rivoluzione perché questa tutto include: da quando la Rivoluzione e l’amore sono contraddittori? Il tuo amore, il nostro amore, la tua lotta, la nostra lotta, sono carne di una stessa carne, sangue dello stesso sangue. Scegliere tra amore e rivoluzione è un falso dilemma. Non c’è niente da scegliere, sono la stessa cosa… e (Santiago) vide la sua invidia per Nicolàs, invidiò il suo destino; fra l’amore e la rivoluzione Nicolàs aveva scelto l’amore e la rivoluzione, in qualsiasi posto fosse caduto, Nicolàs era caduto verso l’alto salendo in pace, lui invece tra l’amore e la rivoluzione aveva scelto niente. Come sentenzia lo stesso Santiago: per lei avevo smesso di essere quello che ero, avevo disertato i miei sogni, avevo tradito la parte più netta dell’esistenza. (…) E lei crede che le rivoluzioni non tradiscano – chiese l’editore. I rivoluzionari forse, le rivoluzioni mai.
Il problema del capitalismo è che sul muro spruzzato dal sangue dei milioni di rivoluzionari fucilati, sul muro finale, ci sarà sempre scritta la promessa di Saint Just: “la Rivoluzione deve fermarsi soltanto alla felicità”.
La danza immobile/Feltrinelli/7.5 euro