Blocchi stradali? Ecco noi per esempio…
Torniamo brevemente sulle norme del DDL Sacconi che regolamentano il diritto di sciopero perché a nostro avviso, anche nei commenti più critici di questi giorni, non è stato sottolineato un elemento importante su cui vale la pena soffermarsi. Le restrizioni, anche se la Marcegaglia già ne auspica la generalizzazione, almeno inizialmente verranno applicate esclusivamente al settore dei trasporti e questo per una serie di motivi che di seguito proveremo ad indicare. Contrariamente a quanto sbandierato da Governo e Confindustria, del cosiddetto diritto alla mobilità dei cittadini alla borghesia italiana interessa poco o nulla, tranne se non si tratta di lavoratori impossibilitati a raggiungere il proprio posto di lavoro. Quello di cui si preoccupano realmente è la circolazione delle merci e con essa la valorizzazione del capitale investito. Proviamo ad allargare il ragionamento. Secondo una distinzione proposta da Eric Olin Wright il potere contrattuale dei lavoratori deriva dal loro potere associativo e dal loro potere strutturale. Il primo consiste <nelle varie forme di potere derivanti dalla formazione di organizzazioni collettive di lavoratori (soprattutto sindacati e partiti politici); il secondo, invece, consiste nel potere derivante semplicemente dalla collocazione dei lavoratori nel sistema economico>. Wright suddivide poi il potere strutturale in due sottocategorie: la prima, che potremmo chiamare “potere di contrattazione legato al mercato”, è <il potere che deriva direttamente da mercati del lavoro rigidi>; la seconda, che potremmo chiamare “potere contrattuale legato al luogo di lavoro” è il potere che deriva <dalla collocazione strategica di un gruppo specifico di lavoratori all’interno di un settore industriale fondamentale>. Le ristrutturazioni ed i processi collegati alla cosiddetta “globalizzazione” hanno minato fortemente il potere contrattuale dei lavoratori dei paesi occidentali incidendo su quasi tutti i fattori sopra indicati. Con lo spostamento della produzione (o anche sola la minaccia di farlo) in paesi caratterizzati da bassi salari, le aziende multinazionali hanno innalzato il livello di concorrenza tra i lavoratori riducendone il potere contrattuale connesso al mercato attraverso la mobilitazione di un “esercito industriale di riserva” su scala mondiale che ha creato un offerta globale eccessiva nel mercato del lavoro. A questo si aggiunge l’importazione di manodopera immigrata resa ricattabile e sottopagata dalle politiche xenofobe. D’altro canto la globalizzazione ha significato anche una progressiva cessione della sovranità nazionale da parte degli Stati ad organismi sovranazionali, e questo finito con l’indebolire il potere associativo della classe operaia. Storicamente, infatti, il potere associativo è sempre stato connesso alla struttura legislativa statale che forniva la cornice entro la quale contrattare il patto sociale in funzione dei differenti rapporti di forza tra le classi. L’indebolimento della sovranità statale ha portato a sua volta ad un ulteriore affievolimento del potere di contrattazione legato al mercato, che si era rafforzato attraverso politiche di welfare, responsabili sia della creazione di una rete di protezione sociale sia della diminuzione della concorrenza sul mercato del lavoro. Un vero e proprio circolo vizioso i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti. La concorrenza globale ha anche contribuito a delegittimare agli occhi dei lavoratori il ruolo di sindacati e partiti politici, inadatti a difendere i diritti della classe operaia in un quadro fortemente mutato dal momento che non sono più gli Stati a decidere (quante volte abbiamo ci siamo sentiti ripetere: è l’Europa a chiedercelo). Se la mobilita del capitale produttivo è comunemente ritenuta da molti la responsabile dell’indebolimento del potere contrattuale associativo e di mercato, alle trasformazioni “postfordiste” nell’organizzazione del lavoro e nei processi produttivi viene per lo più ascritto il venir meno del potere contrattuale legato al luogo del lavoro. La pratica del subappalto e le altre forme di disgregazione verticale del processo di produzione hanno provocato l’inversione della storica tendenza alla crescita del potere legato al luogo di lavoro determinata dall’espansione del modello fordista di produzione di massa. Tale modello tendeva infatti a rafforzare tale potere in quanto rendeva le sorti del capitale strettamente dipendenti dall’azione dei lavoratori in un determinato luogo di produzione. Il modello della catena di montaggio permetteva ad un gruppo organizzato relativamente esiguo di lavoratori collocati in posizioni strategiche di boicottare la produzione di un’intera fabbrica. Inoltre, con l’incremento della concentrazione e della centralizzazione della produzione aumentava anche il danno causato all’economia di un intero paese da uno sciopero indetto in una delle sue grandi imprese o in un settore chiave. Questa concentrazione di lavoratori in enormi unità produttive aumentava, ovviamente, anche il potere associativo del lavoratori facilitandone l’organizzazione e la politicizzazione. Un circolo, in questo caso virtuoso, ce ha determinato le grandi conquiste sociali del recente passato. L’impatto di tutte queste trasformazioni, e veniamo al nodo del nostro ragionamento, non è però così univoco come saremmo portati a credere. Fin dagli anni ottanta apparve evidente alla multinazionali che le delocalizzazioni non rappresentavano una soluzione stabile di fronte ai problemi di redditività degli investimenti e di controllo della forza lavoro. Se la classe operaia dei paesi da cui il capitale si spostava risultava indebolita, per contro, laddove il capitale si andava ad impiantare, nascevano rapidamente organizzazioni e lotte operaie in grado di ottenere importanti altrettanto rapidamente vittorie significative(Brasile, Corea del Sud). Si diffuse quindi la convinzione che per risolvere questi problemi fosse necessaria una soluzione tecnologica. Le trasformazioni organizzative di tipo postfordista ricevettero un forte impulso anche dalla contemporanea espansione delle multinazionali giapponesi che da tempo avevano adottato forme di produzione differenti. Le parole d’ordine divennero produzione flessibile e consegna Just in Time, nonché lavoro di Team e cicli di qualità. L’integrazione verticale della produzione (centralizzazione e grossi insediamenti) fu abbandonata a favore dell’outsorcing, ovvero l’uso estensivo di risorse subappaltate ad aziende esterne. C’era però una differenza fondamentale rispetto al modello originale giapponese, il cosiddetto toyotismo. Le multinazionali nordamericane ed europee non hanno offerto alla forza lavoro impegnata nei settori strategici la garanzia di un lavoro sicuro. In altre parole, si imitarono le misure tipiche della produzione snella giapponese, che permetteva di abbattere i costi, ma non le politiche del lavoro ad esse correlate. Questo modello, fondato su precarietà e contrazione dei salari, è stato dunque definito “lean and mean” (snello e miserabile), in antitesi a quello giapponese definito “lean and dual” (snello e duale) e fondato, almeno in patria, su garanzie e benefit per i settori strategici della classe operaia. In questi anni è apparso chiaro come anche la soluzione tecnologica non rappresenti una soluzione stabile. Senza le garanzie di un lavoro stabile e ben retribuito le multinazionali hanno trovato enormi difficoltà nell’ottenere la cooperazione della forza lavoro, e di conseguenza le dinamiche del conflitto capitale/lavoro sono rimaste sostanzialmente invariate rispetto al modello fordista tradizionale. Di più, è apparso evidente che il sistema della subfornitura legato alla produzione Just in Time non ha indebolito il potere contrattuale degli operai legato al luogo di lavoro; al contrario, la produzione JIT è ancora più vulnerabile della produzione di massa fordista agli scioperi che avvengono negli stabilimenti che producono componenti o nei trasporti. Ogni attività industriale dipende largamente dalle attività e dai sistemi di trasporto in varie fasi del processo produttivo, dall’acquisizione di materie prime e materiali alla necessità di far giungere gli operai sul luogo di lavoro, dal trasferimento dei semilavorati da un sito all’altro della produzione, fino all’arrivo dei prodotti finali sul mercato. I lavoratori del settore dei trasporti hanno avuto e continuano ad avere un potere contrattuale legato al luogo di lavoro relativamente forte. Questo perché il loro “luogo di lavoro” è l’intera rete di distribuzione, cosicché la fonte del loro potere contrattuale non risiede tanto nell’impatto diretto delle loro azioni sui datori di lavoro (spesso enti pubblici), quanto nell’impatto a monte, o a valle, del mancato trasferimento di merci, servizi e persone a destinazione. Inoltre in questo caso non è facile pianificare(e ancor meno mettere in pratica) riorganizzazioni spaziali o delocalizzazioni come risposte alla conflittualità operaia. Perché non è possibile spostare strade, ferrovie, canali, aeroporti senza perdere il valore in essi incorporato, il che delinea una situazione paradossale per cui la mobilità del capitale richiede investimenti relativamente immobili nel settore dei trasporti. Le soluzioni messe in campo dal padronato sono allora l’innovazione tecnologica (i casi più studiati sono la “containerizzazione” e la standardizzazione dei docks nel trasporto marittimo) e la regolamentazione statale del conflitto. Per l’appunto quello che sta facendo il governo Berlusconi, ma quello che hanno fatto tutti i governi che lo hanno preceduto. Questo indica anche, però, come e dove colpire. Se il capitale trasforma il territorio in una fabbrica dispersa, le strade diventano la moderna catena di montaggio e sarà forse il caso di ricordarsene quando decideremo di generalizzare scioperi e lotte.