Sulla pelle il sudore ha lo stesso colore…
Dal Manifesto un’interessante inchiesta di Nicola Mirenzi
Alle sei del mattino sono già sulla strada. Li vedi camminare in fila uno dopo l’altro ai bordi della carreggiata con gli stivali di gomma ai piedi, il cappello di lana e, chi ce l’ha, l’impermeabile. Sono centinaia e centinaia e centinaia e centinaia… Una folla di neri che brulica in mezzo a Rosarno (provincia di Reggio Calabria) senza un ordine apparente. S’accatastano in gruppi di trenta-quaranta persone ai bordi della via principale, Via Nazionale, aspettando che un caporale qualsiasi passi a prenderli per portarli nei campi a raccogliere arance e mandarini. I caporali arrivano con dei piccoli camion, oppure dei furgoncini o dei pick-up: dipende da quante braccia devono assoldare. Si fermano e caricano dieci venti trenta persone, quelle che gli servono. Per una giornata intera di lavoro danno venticinque euro. Ma alcuni stagionali (la raccolta degli agrumi dura da dicembre a marzo) devono anche pagare il trasporto fino al posto di lavoro: cinque euro andata e ritorno, da sottrarre ai venticinque del salario.
«Non sono pochi i soldi che gli diamo – spiega Peppino, uno dei tantissimi piccoli imprenditori agricoli della piana di Gioia Tauro – noi agricoltori non guadagniamo quasi niente dalla raccolta delle arance e dei mandarini. I campi hanno bisogno di una manutenzione costante lungo tutto l’anno. E il prezzo a cui noi vendiamo il prodotto alle cooperative o alle aziende è bassissimo. Riusciamo a stento a coprire le spese. Figuriamoci se possiamo pagare di più il lavoro… Questo è un settore in crisi».
La parola crisi per gli stagionali extra-comunitari – quasi tutti africani e clandestini – significa meno lavoro. Ovvero: meno spicci per mangiare. E alle nove del mattino su Via Nazionale la crisi si può vedere con gli occhi. Decine e decine di persone ripercorrono al contrario la strada che hanno fatto qualche ora prima in cerca di fortuna: tornano a casa perché nessun caporale li ha voluti a lavorare.
Ma “casa” si fa per dire. I due alloggi principali in cui dormono e vivono sono la “Cartiera” e l’ex fabbrica “Rognetta”. Quest’ultima, a pochi passi dal centro della cittadina, ospita dalle trecento alle quattrocento persone, accampate con baracche di cartone costruite dentro l’edificio abbandonato. Mentre nella “Cartiera”, che si trova sulla strada che va verso San Ferdinando, paese limitrofo di Rosarno, dormono dalle ottocento alle mille persone. Altri clandestini sovraffollano le case di campagna abbandonate o appartamenti in affitto. «Non abbiamo le cifre esatte degli irregolari presenti sul nostro territorio», ci spiega il commissario Domenico Bagnato (il Comune di Rosarno è stato sciolto per infiltrazioni mafiose e ora è commissariato), «è ancora in corso un’operazione di censimento. Però con buone probabilità si può affermare che il numero totale degli irregolari a Rosarno oscilla tra le tremila e le quattromila unità».
Ma quale che sia il loro numero, le condizioni di vita sono sconcertanti. Entro nella “Cartiera” grazie a una persona del posto che mi aiuta a superare la diffidenza degli inquilini. Pochi giorni prima due immigrati sono stati aggrediti da giovani di Rosarno che avevano tentato, senza riuscirci, di derubarli. Così l’aria si è fatta tesa. Anche se le violenze contro gli extra-comunitari non sono un fatto nuovo. «Capita che qualche giovinastro venga qui e tenti di intimorire gli immigrati. Ma rimane comunque una minoranza», ci spiega Don Memè Asione, uno dei due parroci della città e membro della Charitas, associazione che una volta a settimana serve un pasto caldo. Tanto basta però per far saltare il teorema che vuole il clandestino un criminale pericoloso. «I rosarnesi non hanno paura degli extracomunitari. Al contrario, sono gli immigrati che hanno paura di noi», prosegue Don Memé.
Appena metto piede nel cortile antistante l’edificio della fabbrica dismessa un immigrato urla in inglese: «Non vogliamo cibo, non vogliamo vestiti: vogliamo i documenti». Poco più in là c’è una capra squartata e appesa a un palo tra due alberi: sgocciola il sangue prima di finire arrostita. Mentre un giovane africano tiene in mano un pollo. Lo poggia a terra, gli blocca le ali e gli rompe la noce del collo. Subito qualcuno mi si avvicina. «Ho ventitrè anni. Mi chiamo Desmond e vengo dal Ghana. Ho lavorato a Verona, a Napoli, a Palermo… Ma un posto di merda come questo non l’ho mai visto», racconta uno dei ragazzi che mi stanno intorno.
Fa freddo e pioviggina. Alcuni non hanno nemmeno le scarpe. Gli stivali di gomma che usano nei campi sono ad asciugare e rimangono con le infradito ai piedi. Sono tutti giovani tra i venti e i venticinque anni. Pochi hanno qualche hanno in più. «La cosa che più ci fa stare male qui è l’abitazione», racconta Viktor, ventiduenne del Burkina Faso. Le condizioni di vita sono in effetti al limite dell’umanità. La Cartiera – un capannone alto una decina di metri, largo trenta e lungo un centinaio – è stracolma di baracche di cartone, usate per ritagliare uno spazio di intimità nella promiscuità più assoluta. I più fortunati sono riusciti a ripararsi sotto delle tende da campeggio. Ma non cambia poi molto.
Le baracche sono organizzate su più file in modo da ricavare, tra una e l’altra, dei corridoi. Percorrendoli sbircio nell’intimità degli accampamenti: scorgo qualche scodella della notte piena di urina, piatti e pentole sporchi, materassi stesi a terra con coperte arrotolate su, qualche spazzolino da denti, fornellini da campo. Arrivati davanti a quella che chiama la sua «home», Desmond si ferma e mi apre la porta. Mi fa scattare delle foto (è proibito invece fotografare i volti e le persone: tutti hanno paura di essere identificati e rispediti a casa). E’ un rifugio di cartone di tre metri per tre innalzato legando le “pareti” a dei pali di legno. Il pavimento è umido. Il soffitto non c’è.
A tre metri qualcuno ha fatto bollire l’acqua in un pentolino e ci sta buttando dentro la pasta. Il fumo del fuoco si alza e si aggiunge ai fumi dei falò che ognuno accende per riscaldarsi. Ci sono solo due larghe porte nell’edificio. Così il fumo non può uscire e si staglia come una nebbia costante e immobile sull’accampamento, avvolgendolo tutto. L’odore è pesante e acre. Si riesce a respirare a fatica.
Nel capannone non ci sono nemmeno i bagni. Fuori dall’edificio il Comune ha fatto installare dei bagni chimici, di quelli che si usano per i grandi concerti: ma sono solo otto. Ci sono poi dei rubinetti d’acqua corrente, dove gli immigrati vanno a riempire i bidoni per sciacquarsi la faccia. L’angolo all’aperto in cui si lavano è ricoperto di una melma di fango mischiata ai rifiuti. Ogni norma igienica è sospesa.
«Non possiamo fare finta che queste persone non esistano. Il sistema agrario della Piana ha bisogno di loro. Ma per lo stato italiano queste persone non ci sono, sono invisibili», spiega Despina Ivasenco, presidente dell’associazione Omnia, organizzazione che offre dei servizi per l’integrazione e si occupa della salute dei lavoratori immigrati. «La legge Bossi-Fini riconosce anche ai clandestini il diritto di essere curati come Stranieri Temporaneamente Presenti (STP). Finora abbiamo lavorato facendo riconoscere questo status a quanti ne hanno bisogno, assicurandogli un’assistenza minima. Ma cosa succederà ora se obbligheranno i medici a denunciarli?».
L’emendamento presentato dalla Lega e votato dal parlamento, infatti, preoccupa molto quelli che in questi anni si sono dati la pena di tutelare la salute dei migranti. Come Medici Senza Frontiere che dal 2004 opera a Rosarno con una sua postazione.
Nonostante la cura e la premura di tutte queste persone, però, «le condizioni dei lavoratori rimangono estremamente disagiate», come ci spiega Pasquale La Rosa, segretario della Cgil della Piana. «La condizione davvero essenziale per poter agire sul miglioramento della vita dei migranti è il superamento della Bossi-Fini. Ci sarebbe bisogno di riconoscere a queste persone lo status di lavoratori. Dopodichè si potrebbero realizzare degli interventi per una soluzione organica dell’emergenza abitativa e di vita dei migranti. Ma il governo continua a fare una politica di facciata. Minaccia pulizia, ma anche se lo volesse non ha, di fatto, le risorse per rimpatriare tutti questi clandestini».
Il sistema agrumicolo di questo pezzo d’Italia si regge sulla forza lavoro dei lavoratori irregolari. Il prezzo delle arance e dei mandarini è così basso che gli agricoltori guadagnano qualcosa solo grazie al costo del lavoro bassissimo. «Senza di loro andrebbe tutto per aria», prosegue La Rosa. «La loro non è manodopera sostitutiva ma è forza lavoro indispensabile. Nessun italiano è disposto a lavorare alle condizioni in cui loro lavorano, per venticinque euro al giorno…». Però non è solo a Rosarno che questi immigrati lavorano. Quando finisce la stagione delle arance in Calabria si spostano nella zona di Napoli per la raccolta dei pomodori. Poi vanno in Puglia. Sono come un treno che attraversa l’Italia, andando a tappare i buchi delle produzioni messe in crisi dalla competizione con sistemi in cui la manodopera non costa niente. «La politica dovrebbe assumere questa questione come il grande problema del nostro tempo», dice Peppino Lavorato, ex sindaco anti-‘ndrangheta di Rosarno. Ma per l’opinione pubblica imperante questo è solo un affare di ordine pubblico.