Palestinesi e “PAPestinesi”
Smaltita la fatica di questi ultimi giorni torniamo a mente fredda sul corteo, anzi, sui due cortei nazionali che sabato hanno attraversato Roma, iniziando con il constatare che le polemiche e le difficoltà che hanno accompagnato la costruzione di questa giornata di lotta non hanno (incredibilmente) disincentivato almeno 30mila compagne e compagni dallo scendere in piazza per la Palestina. Da oltre un anno centinaia di manifestazioni più o meno grandi e azioni di protesta combattive si susseguono con cadenza settimanale, riuscendo spesso anche a intercettare la rabbia delle cosiddette seconde generazioni arabo discendenti, e questo senza che il movimento di solidarietà con la lotta di liberazione dei palestinesi mostri segni di stanchezza. In un paese in cui il conflitto sociale da anni è ridotto ai minimi termini e in cui la sinistra di classe lamenta un’estrema difficoltà anche solo nel parlare con le nuove soggettività razzializzate e subordinate. Si tratta di un dato politico di cui non si può non tener conto e di un patrimonio politico essenziale che va preservato, anche dai tentativi di strumentalizzazione e cooptazione che arrivano da più parti.
Le note positive “congiunte” della giornata che accomunano entrambe i cortei, quantitativamente più o meno simili, però finiscono qui. Perché alla fine l’accordo faticosamente raggiunto dalle diverse anime della diaspora per un corteo unitario con una testa palestinese è stato fatto saltare all’ultimo minuto (e non dai palestinesi), imponendo nei fatti quella divisione che a parole e a mezzo social tutti dicevano di voler di scongiurare. Da un certo punto di vista i due cortei, con la loro composizione sociale ed anagrafica e la loro cifra politica, hanno però quantomeno avuto il merito di mostrare plasticamente le ragioni di quelle divisioni che in queste settimane erano risultate per lo più incomprensibili e bizantine ai non addetti ai lavori e a chiunque fosse fuori dai circuiti militanti.
A fare chiarezza, dobbiamo dire, ci ha pensato fin da subito chi a Piazza Vittorio ha deciso di schierare un paio di cordoni di servizio d’ordine rivolti verso e contro i Giovani palestinesi e l’Udap, con davanti uno striscione (ovviamente sempre rivolto verso e contro Gpi e Udap) firmato “Assemblea del 9 novembre”, tanto per far intendere di chi fosse la regia dell’operazione.
La maturità politica e l’autodisciplina dei Gpi e dell’Udap ha poi evitato che a questa innegabile dimostrazione di ostilità se ne contrapponesse una di segno uguale e contrario, cosa che avrebbe finito col rovinare il senso di una mobilitazione la cui portata, ed è bene ripeterselo come un mantra, va ben oltre le beghe italiche e le piccole ambizioni egemoniche di qualche partitino. Chi si è arrogato questa responsabilità ha così imposto materialmente una spaccatura tra la manifestazione dei “buoni” e, ben separati dai “gilets jaunes de noantri”, il corteo dei “cattivi” reduci dagli scontri di piazza del 5 ottobre. Ora, non saremo certo noi a fare le anime belle. Da sempre la conquista della testa dei cortei con la conseguente garanzia di riconoscimento politico e visibilità mediatica sono state motivo di scontri, anche violentissimi, tra compagni di strutture diverse. Ma che questo avvenga in un corteo per la Palestina ai danni di organizzazioni palestinesi da parte di chi può al massimo fregiarsi di essere un “solidale”, rappresenta una novità intollerabile che renderà assai ardua, immaginiamo, la riconquista di un’unitarietà di intenti. E per la causa palestinese questo rappresenta un danno enorme!
Ma torniamo alla politica. Due cortei quantitativamente riusciti dicevamo, eppure qualitativamente estremamente diversi. Il primo, quello dei “buoni” per intenderci, è stato il classico corteo per la pace che siamo stati abituati a vedere ogni qual volta scoppia una guerra. Ad aprire c’era, ovviamente, lo spezzone dei palestinesi. Però quelli “ragionevoli” come direbbe qualcuno, e che oltre che riconoscersi nell’assemblea del Nuovo Cinema Aquila, si riconoscono anche nelle posizioni dell’Ambasciata e quindi anche in quelle di quell’ANP, prodotto e strumento degli accordi di Oslo. Ovviamente tagliamo con l’accetta, sappiamo che le posizioni sono più articolate, però il dato politico prevalente emerso già a partire dal corteo del 12 ottobre è la ritrovata centralità di quella componente più moderata (usiamo un eufemismo) della diaspora che per oltre un anno era stata messa ai margini delle mobilitazioni, quella che sosteneva di non stare “né con Hamas né con Netanyahu”, arrivando ad addossare “all’avventurismo” della Resistenza le responsabilità del genocidio in corso. Dietro di loro, ben ordinate, c’erano poi tutte le anime della (micro)sinistra radicale intervallate anche da quell’associazionismo democratico contiguo al PD che sulla Palestina fatica ad andare oltre un atteggiamento umanitarista. Un corteo in cui le bandiere di partito e di organizzazione erano assolutamente preponderanti rispetto quelle palestinesi e in cui la combattività e il dato anagrafico, fatta eccezione per gli spezzoni studenteschi, raccontava meglio di ogni indagine demoscopica il profilo sociale dell’elettore medio della sinistra (ex)parlamentare. Per carità tutto legittimo e per certi aspetti probabilmente anche politicamente utile se si fosse cercato di amalgamare questo milieu “sinceramente democratico” con i settori più avanzati della diaspora, riconoscendo ad essi quel ruolo di avanguardia che effettivamente rappresentano. Invece il ragionamento prevalso è stato esattamente l’opposto, quasi a dire che la radicalità di Gpi e Udap nel sostenere la legittimità della Resistenza (di ogni componente della Resistenza!!!) e, perdonate il gioco di parole, di tutte le altre forze che costituiscono l’Asse della Resistenza e che sono in prima linea nello scontro contro il sionismo e l’imperialismo, rappresentasse un impedimento all’allargamento del movimento di solidarietà. Il tutto condito da quel pizzico di orientalismo di ritorno di chi in fondo in fondo si sente in diritto di spiegare ai palestinesi e alle palestinesi “irragionevoli” il “come si fa” e il “come ci si comporta”.
Arriviamo però a noi. Il secondo corteo, quello in cui abbiamo convintamente sfilato e che per quanto nelle nostre possibilità abbiamo contribuito a costruire, nonostante tutti gli ostacoli alla fine ha equiparato nei numeri quello che lo precedeva. E qui dobbiamo confessare di essere rimasti piacevolmente sorpresi. Il confronto, almeno sulla carta, poteva apparire impari, da una parte c’erano infatti le “250 associazioni” (sic) della “Assemblea del 9 novembre”, alcune delle quali, per quanto relativamente piccole, con un apparato capace di facilitare la partecipazione e gli spostamenti degli iscritti. Dall’altra parte c’erano “solo” i Gpi e l’Udap e dietro di loro organizzazioni, collettivi e spazi sociali in buona sostanza autoconvocati e autorganizzati. Probabilmente però noi per primi dobbiamo aver sottostimato il portato del lavoro politico svolto in questi mesi da queste compagne e questi compagni, e quanto questo ha determinato in termini di legittimità, autorevolezza e, soprattutto, riconosciuta continuità con le istanze politiche della Resistenza. Fatto sta che dietro allo spezzone di apertura dei palestinesi si sono coagulati oltre quindicimila solidali in un corteo eterogeno, magmatico, prettamente giovanile, ma al tempo stesso estremamente compatto e combattivo, e capace di collegare nelle sue rivendicazioni la lotta in Palestina con quella dei subalterni nel nostro paese. A dimostrazione che la lotta della Resistenza palestinese rappresenta in questo momento il punto più alto della lotta degli oppressi e degli sfruttati, anche di quelli che alle nostre latitudini faticano ad arrivare a fine mese. Probabilmente l’estrema eterogeneità che si è manifestata in piazza sabato a sostegno della Resistenza, oltre a rappresentare una ricchezza da cui attingere potrebbe finire per tramutarsi in limite se non opportunamente “diretta” (passateci il termine), crediamo però che spetti solamente ai compagni e alle compagne dei Gpi e dell’Udap, e più in generale alle avanguardie palestinesi l’onere e l’onore di assumersi questo compito. Noi, da parte nostra, sappiamo bene da che parte stare!
Dal fiume al mare
Palestina Libera