Il Governo Draghi, ossia la lotta di classe dall’alto… whatever it takes.
Oltre ogni ragionevole previsione il tintinnio delle casse di Bruxelles e il machiavellismo di Renzi – o opportunismo, fate un po’ voi – sono riusciti nel miracolo politico di disarticolare la maggioranza del governo Conte e di rimescolare tutta, ma proprio tutta la geografia parlamentare. Governo Conte che certamente non vantava la più solida delle maggioranze, per l’appunto, ma che quantomeno si teneva saldamente aggrappato alla figura dell’omonimo e al suo inspiegabile consenso popolare, allontanando lo spauracchio della crisi di governo con lo spauracchio ancor più grosso della crisi pandemica. Con il collasso dell’equilibrio precario governativo, quello che era il fantasma europeista di Draghi, agitato dai salotti buoni e dai loro megafoni editoriali ogniqualvolta si prefigurasse una crisi di governo, è diventato infine carne e sangue e ci viene servito, senza il minimo imbarazzo, sub specie patriottica.
Elemento curioso, per non dire tragico di tutta questa storia, è il sostanziale unanimismo con cui una figura come quella di Mr. Austerity è stata accolta dalle forze politiche parlamentari. Dal Partito Democratico – e fino a qui tutto torna – inchiodato adesso dalla fronda di genere alla Lega, che una volta aver archiviato il suo secessionismo barattandolo con un ben più fiammante patriottismo ossimorico, si è scordata perfino del suo anti-europeismo, ridotto oramai a qualche abbaio sulle politiche migratorie; Leu, riuscita nel difficile compito di scindere l’atomo parlamentare ancora una volta, vedendo un manipolo volare dritto verso la fiducia e riportando il resto del drappello di parlamentari dissidenti all’occupazione che meglio riesce alla categoria: il circo della politica congressuale, o la politica ridotta ad attività circense; i Cinque Stelle, messi al mondo da Casaleggio con l’unica missione di andare al governo, ma con nessuno, che sono invece riusciti a compiere una capriola parricida –purtroppo senza più un padre – andando invece al governo con tutti, ma proprio tutti. Unica eccezione al sostanziale allineamento degli astri parlamentari, chi non poteva che giovare di questo improvviso cambio di scenario collocandosi comodamente all’opposizione e aspettando solo che i sondaggi sanciscano l’ennesimo punto percentuale in eccesso. Stiamo parlando, ovviamente, di FdI.
Tolto di mezzo l’aspetto farsesco di tutta questa vicenda – e non potrebbe essere altrimenti vista l’abnegazione con cui il corpo parlamentare seguita a tener viva la nobile tradizione
della commedia dell’Arte – rimane il contenuto di questo passaggio politico tutt’altro che scontato, e nient’affatto da sottovalutare. Come si diceva all’inizio è bastato il tintinnio delle casse di Bruxelles. E’ bastato il Recovery Plan a far tornare tutti su “l’attenti” e a intavolare in pochi giorni un piano di emergenza capace di rimettere in carreggiata la sonnecchiante Italia. La cinghia di trasmissione imprenditoriale, infatti, cogliendo l’attimo del capriccio renziano ha comunicato ai referenti politici parlamentari la volontà che il ghiotto aiuto di Bruxelles non potesse essere dilapidato, ne tantomeno condiviso con qualche fantasioso amante di politiche redistributive: i soldi sono pochi e dunque vanno spesi “al meglio”.
In effetti, nonostante Draghi sia stato presentato a canali unificati come una sorta di apostolo del keynesismo contemporaneo, la reincarnazione del compianto Federico Caffè, insomma, uno che sembra essere atterrato a Roma con il solo proposito di sputtanare le risorse gentilmente donate dai “frugali”, il vero intoppo sta nell’entità reale di questi aiuti europei che il novello primo ministro si troverà a gestire. Una rapida ricognizione della natura dei fondi può chiarire quanto detto: sui 209 miliardi presunti che dovrebbero arrivare dall’UE, ben 127 sono di prestiti che in base ad una
ragionevole previsione sul debito dovrebbero garantire non più di 4 miliardi l’anno di risparmio. Per quanto riguarda il piatto più appetibile, diciamo così, ovvero il “fondo perduto” da 82 miliardi, per adesso non si trova ancora una voce di copertura nel bilancio della UE e dunque andranno verosimilmente garantiti dagli stessi stati membri, in base al proprio PIL (40 miliardi da parte italiana). A questi conti a cifra tonda andrebbe aggiunto il contributo netto che l’Italia fornisce al bilancio comune per una cifra che si aggira intorno ai 20 miliardi. Tirate le somme, dunque, non rimangono che 8 miliardi di euro circa tra prestiti agevolati e fondo perduto, una cifra che porta il contributo netto annuale che dovrebbe arrivare dalla “cornucopia europeista” a meno di dieci miliardi l’anno. Una somma che forse potrebbe bastare a coprire il bilancio del Reddito di cittadinanza.
Certo, come si suol dire, “non si butta via niente” in tempi di crisi, soprattutto se quel poco è già tutto collocato in un piano selettivo di “ripartenza” nazionale.Se questo è infatti il piano quantitativo, quello qualitativo ci dovrebbe quantomeno aiutare a capire come questa cifra andrà investita. In questo senso la lista di ministri da poco snocciolata dal governo Draghi può essere certamente un primo, orrido, segnale della postura che questo assumerà a fronte della crisi in cui progressivamente sprofondiamo. Ma ancora di più lo sono le prese di posizione da parte di Draghi su un punto fermo dell’agenda di governo: l’inevitabile “sblocco dei licenziamenti”. L’orizzonte in cui ci inscriviamo quando parliamo di “sblocco dei licenziamenti” è quello di una non meglio identificata fatalità. Se infatti sembra chiaro, dalle dichiarazioni di Mattarella durante la crisi di governo a quelle dello stesso Draghi, che questo sblocco dovrà avvenire, un po’ meno chiare sono le modalità e i tempi con cui questo si verificherà. Probabilmente, se il governo avrà un minimo di lungimiranza, tenterà in ogni modo di rendere “indolore” qualche cosa che non può esserlo e di parcellizzare il passaggio di questo milione di lavoratori alla disoccupazione. Quello che è certo è che, come si legge nell’ultimo documento redatto a dicembre dal “gruppo dei 30” con Draghi a capo del comitato esecutivo, questa fase sospesa tra migliaia di piccole e medie aziende “zombie” e relativi salariati mantenuti dalla CIG deve finire. Come questo avverrà non è difficile immaginarlo: come quello che, sempre nel documento dei “30”, è identificato in termini astratti come il passaggio naturale dalle imprese zombie a quelle virtuose della forza lavoro.
Tradotto, una maggiore flessibilità del lavoro, precarietà e disoccupazione, magari con un pizzico di welfare ma solo fino a quando i tempi non sono maturi per assicurare nuova forza lavoro alla “mano invisibile” del mercato. Più che tanti discorsi formali su governi tecnici o governi politici, è la materialità delle cose che ci prospetta uno scenario che nella peggiore delle ipotesi potrebbe farci ricordare l’ultima crisi come una “passeggiata di salute”, nella migliore prefigurarci un disastro sociale pari a quest’ultima. E’ bene dunque che ci si attrezzi sin da subito, e che si agisca conseguentemente
per contrastare un’azione di governo che per adesso è sorretta da un’inedita maggioranza e alimentata costantemente dalle “linee di rifornimento” di Bruxelles. Che lo sblocco dei licenziamenti e la gestione della crisi avvenga in forme brutali o con le ben più lungimiranti mediazioni welfareistiche che possono essere in campo, incide poco sul chiaro segno di questo governo: la crisi dovrà essere scaricata sulle classi popolari e in nome di una più o meno ortodossa alchimia di mercato. Lotta di classe dall’alto insomma: «whatever it takes».