Lockdown or not lockdown… is that the question?
Le mobilitazioni che in questi giorni hanno attraversato le strade di Roma così come quelle di altre città hanno giustamente ribadito a gran voce e a più riprese la distanza siderale che le separava dalle piazze dei cosiddetti “negazionisti”. Una lontananza umana e culturale, prima ancora che politica, dalle pulsioni irrazionali di chi, di fronte ad un’epidemia che stravolge lo status quo, non riesce a far altro che rimuovere il problema fino a negarlo, arrivando al punto di prendersela con quei medici e quegli infermieri che quotidianamente si adoperano per contrastarlo. Quasi fosse loro la colpa della situazione surreale in cui siamo stati precipitati da febbraio e non di una classe politica che da un quarantennio a questa parte ha progressivamente smantellato ogni forma di stato sociale in ossequio ai dettami dell’economia di mercato. Una differenza abissale che è stata rimarcata sabato scorso con l’abbraccio virtuale tributato dal corteo alle lavoratrici ed ai lavoratori del policlinico Umberto I e che può essere sintetizzata nel concetto espresso più e più volte dal microfono: noi non siamo contro il lockdown.
Se questo è vero, se per ovvie ragioni che qui è perfino inutile ribadire non possiamo essere la “sinistra contro il lockdown”, è però altrettanto vero che ad oltre nove mesi dall’inizio della pandemia noi non possiamo più nemmeno permetterci di essere soltanto la “sinistra per il lockdown”. E questo nonostante il fatto che, almeno nei nostri desiderata, questa volta il blocco totale di ogni attività dovrebbe prodursi con modalità “alla cinese” ed essere accompagnato da misure di sostegno incondizionato al reddito di tutte e tutti. Se questa dialettica binaria poteva avere idealmente un senso nove mesi fa, oggi però ci riconfinerebbe nuovamente in una logica emergenziale che non solo mette in mora ogni critica politica, perché quando “la casa va a fuoco” non è che puoi star li a discutere dei massimi sistemi, ma soprattutto perché ci ridurebbe ad una battaglia oggettivamente di retroguardia. Il virus non è la causa principale dell’emergenza, ha solo contribuito a far venir al pettine i nodi che si erano andati intrecciando grazie all’ideologia dello “stato minimo” neoliberale.
Come abbiamo scritto fin dall’inizio di questa vicenda non siamo né virologi né epidemiologi (link) né tantomeno cerchiamo di atteggiarci a tali, ed è per questo che, pur avendo le cognizioni scientifiche di quello che sta avvenendo, ci limitiamo ad analizzare empiricamente quanto è accaduto in questo paese come nel resto del mondo, quali sono state le ricadute politiche e sociali, provando poi a trarne delle indicazioni conseguenti e coerenti.
Fin dall’inizio la narrazione mainstream della pandemia, tanto quella mediatica quanto quella politica, ha attinto a piene mani (e non casualmente) da un vocabolario bellicista mutuandone concetti e significanti provando a costruirci attorno un clima di opinione da unità nazionale. Così nel giro di pochi giorni ci siamo tutti ritrovati in “trincea”, gli ospedali erano improvvisamente diventati la nostra “prima linea”, mentre i medici e gli infermieri erano i nostri “soldati al fronte” e a noi, o almeno a quelli di noi che non erano “indispensabili” e dovevano o potevano restare a casa, spettava solo il compito di rispettare disciplinatamente il “coprifuoco” per non vanificare lo sforzo che il nostro Paese stava facendo. I più attenti ricorderanno quindi come, nel frame della “guerra al virus”, il lockdown venne presentato più o meno come una sorta di “arma finale” che avrebbe finalmente permesso di sconfiggere il nemico invisibile, eradicandolo definitivamente dalla società. Un “sacrificio collettivo” che però ci avrebbe garantito di ripartire “più forti di prima” nella competizione globale.
Oggi, di fronte alla seconda ondata che si sta producendo in maniera asincrona, ma sostanzialmente simile, in tutta Europa, possiamo dire senza timore di smentita che non è affatto andata così. E non per il lassismo o l’irresponsabilità di un inesistente “nemico interno” a cui pure viene data continuamente la caccia: come i vacanzieri indisciplinati, il popolo delle discoteche, quello della movida, gli studenti scriteriati o chiunque altro in questi mesi sia stato indicato come capro espiatorio di turno, ma per ragioni ben più profonde. Sia chiaro, il lockdown primaverile è certamente servito, pur con tutte le sue contraddizioni, a decongestionare il sistema sanitario che si stava velocemente avviando al collasso, ma non ha risolto il problema e non potrà risolverlo nemmeno adesso. Ci ha fatto guadagnare tempo, questo si. Ma questo tempo avrebbe dovuto essere impiegato da chi ci governa e oggi progressivamente ci richiude in casa per non farci trovare nuovamente impreparati, e invece è stato sprecato nel tentativo di fare quelle che a Roma si chiamano “le nozze coi fichi secchi”. Ovvero provare ad affrontare l’epidemia senza quegli interventi strutturali da cui, nella loro ottica, sarebbe poi stato difficile se non impossibile poter tornare indietro. Lo spiega bene questa mattina Paolo Gentiloni, commissario europeo all’Economia in un passaggio di un’intervista al Corriere della Sera che vale la pena riportare per intero: La Commissione non solo tollera, ma incoraggia spese straordinarie per far fronte all’emergenza. Ma invita a una grande cautela nell’evitare che queste ulteriori spese siano non necessarie e soprattutto non diventino permanenti. Lo stesso vale per quella che qualcuno ha chiamato la mano visibile dello Stato. Non deve trasformarsi in un’illusione di autosufficienza. Abbiamo una strategia industriale europea. Il fatto che la Commissione oggi sia flessibile sugli aiuti di Stato non deve alimentare piccoli statalismi senza prospettiva. L’intervento pubblico a volte è necessario, ma non può diventare un’ipoteca sul futuro.
Il che, tradotto in soldoni, significa che mentre decine e decine di miliardi di euro vengono stanziati per dare “ristoro” alle grandi imprese e qualche briciola viene destinata all’assistenza per le fasce più deboli della società, quasi nulla dev’essere speso per interventi strutturali che rischiano, come detto, di risultare irreversibili. E quindi nessun nuovo ospedale e nessuna nuova assunzione nella sanità pubblica, se non a tempo determinato, nessuna nuova scuola e nessun docente aggiuntivo, se non precario, nessun nuovo autobus e tantomeno nessun nuovo autista, se non privato. Stiamo semplificando, ovviamente, ma crediamo che, pur se consapevoli di quali siano oggi le nostre possibilità e le nostre potenzialità, debba essere questo il piano dello scontro politico e culturale su cui attestarci in questo momento. Un’idea di società che non possa essere ridotta al “chiudeteci pure basta che ci diate i soldi per sopravvivere”, ma che ragioni sul come poter vivere (relativamente) liberi e (relativamente) sicuri qui ed ora, perché attrezzati a convivere con il virus attutendone gli effetti sanitari e sociali, almeno fino all’arrivo del fantomatico vaccino. Non sarà il socialismo, certo, ma quanto meno avremo costruito la consapevolezza che da questa situazione non se ne esce con qualche bonifico diretto sul conto corrente, ma con più economia pubblica, più servizi e più stato sociale, insomma con l’aumento di quello che una volta avremmo chiamato salario indiretto. E dunque, se questo è vero, allora dovremmo aver pure ben chiaro che da che mondo è mondo solo la conflittualità sociale e la forza delle rivendicazioni dal basso hanno conquistato alle classi subalterne l’estensione dei propri diritti sociali imponendo agli Stati interventi normativi, protettivi e almeno parzialmente redistributivi. Così come dovremmo aver chiaro, quando chiediamo noi per primi di essere reclusi nuovamente in casa, che la lotta sociale e quella social non hanno affatto la stessa efficacia, e che chiusi ognuno nella propria casa, magari atomizzati davanti a uno schermo, la lotta di classe è un po’ difficile da portare avanti, figuriamoci vincerla.