Il miserabile teatrino sulla pelle dei braccianti
Sembra che il vaccino contro il Coronavirus sia già stato trovato: si chiama lavoro. Diceva bene chi notava che l’unico momento in cui l’aggressività del virus sembra calare improvvisamente, è quello della produttività. Il cedimento su tutta la linea da parte di un governo privo di una strategia complessiva alle richieste – anzi al piano complessivo, l’unico per adesso – della Confindustria, che vuole liquidare le misure di contenimento e di sicurezza come fossero una piccola parentesi, parla da se. Eppure ci è voluta una pandemia globale – non proprio una passeggiata – per far riemergere la contraddizione dagli anni di oblio in cui era stata relegata. E tornare a far discutere. Da ultima la questione regolarizzazione “migranti” ed emergenza manodopera nel settore agricolo. La proposta avanzata dai renziani, se ci ricorda della miseria di quella frazione governativa che pur di rimanere a galla torna ad agitare le acque di palazzo Chigi cercando di recuperare uno spazio elettorale ormai estinto, ripresenta, in maniera del tutto strumentale, una questione centrale per una larga fetta del proletariato di questo paese. Ma di cosa stiamo parlando quando parliamo di “regolarizzazione”, quale è la proposta che ha alzato un polverone in tutto lo spettro politico, da destra a sinistra? Parliamo di una “regolarizzazione” provvisoria, da sei mesi rinnovabili ad altri sei per la proposta iniziale, a soli tre mesi di tutela per l’ultima versione del provvedimento. Praticamente nulla, una marchetta agli imprenditori agricoli, una norma ad uso e consumo del settore agroindustriale che, orfano dei corridoi speciali con la Romania – che pure altri paesi europei hanno continuato a garantire come Inghilterra e Germania – vuole evitare in tutti i modi gli squilibri del coronavirus nella filiera agroalimentare.
Eppure la questione non è così semplice – soprattutto per una sinistra di classe che vuole definirsi tale – e non si può correre il rischio di schematizzare. Il settore agroindustriale è infatti un settore produttivo strategico che si regge sulla manodopera sottopagata, stagionale, iper-sfruttata e che vive in condizioni di semi-schiavitù, di cui, una buona parte, viene dal proletariato di recente immigrazione. E’ un settore che sostanzialmente basa la sua competitività – la cui forma compiuta sono le famose passate di pomodoro a prezzi ridicoli nei supermercati – sull’iper-sfruttamento dei braccianti che ad ogni stagione si ritrovano schiacciati dal braccio del caporalato al servizio dei grandi agro-produttori. Ogni garanzia – seppure borghese e come tutte le altre puramente formale – per questo settore di proletariato significa ossigeno e possibilità di alzare la testa. La “clandestinizzazione” forzata, la situazione in cui tutte le recenti leggi in materia d’immigrazione hanno voluto spingere i lavoratori irregolari, è lo strumento più efficace per rendere questo settore di proletariato succube e inattivo, sostanzialmente ridurlo al silenzio e immobilizzarlo. E non solo: è uno degli strumenti più efficaci per tenere sotto scacco anche il resto dei lavoratori che, annichiliti dalla retorica della concorrenza dello straniero, non riescono a focalizzare la causa, l’offerta di lavoro a salari miseri che questi lavoratori sono costretti ad accettare, scagliandosi contro l’effetto dell’aumento della concorrenza.
Il cuore di tutta la questione dell’immigrazione e dei conflitti che hanno caratterizzato la storia di questo paese di questi ultimi anni si trova, infatti, proprio qui: il rapporto tra classe e nazione. E’ solo l’antagonismo fra le classi che può riportare ordine nel disorientamento in cui ormai il conflitto sociale in Italia, per quel poco, si sviluppa. E’ solo l’antagonismo delle classi che può sopprimere quello tra le nazioni, tra lavoratori già inseriti nel processo produttivo, e quelli di recente inserimento che vivono situazioni di lavoro insostenibili. Comprendere che spezzare questo circolo vizioso della frammentazione e della divisione delle condizioni di vita interne alla classe (circolo che va dalla “clandestinizzazione” alla moltiplicazione delle figure contrattuali passando per la precarizzazione generalizzata) ci può dire molto di più che agitare incomprensibili – se non alla parte sbagliata – spettri di un’imprenditoria illuminata desiderosa di dispensare permessi di soggiorno urbi et orbi. Come se qualsiasi conquista, anche dal punto di vista formale, fosse regalata. Ed è proprio il contrario, invece: gli imprenditori agricoli, come ha dichiarato il presidente di una delle più grandi confederazioni agricole ieri sul Corsera (il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti), vogliono lavorare con “chi già conoscono”, ovvero con i lavoratori più produttivi, ed è per questo che si stanno organizzando con voli diretti per prelevare manodopera “già collaudata” e, in assenza di “corridoi verdi” dalla Romania e possibilità di chiedere ulteriori straordinari ai lavoratori già contrattualizzati, guardano alla misura di regolarizzazione dei clandestini come ad una extrema ratio plausibile. Quindi nè pietà umanitaria nè foga di contrattualizzazione, ma misura necessaria alla tutela della produzione. Eppure a quella fetta di lavoratori sulla carta inesistenti, la possibilità di essere parificati agli altri che pure vivono condizioni di sfruttamento e subordinazione – che dovrebbe essere attuata con misure effettive e non con la ridicola marchetta proposta dalla Bellanova – equivale a ridurre la propria ricattabilità. La fuoriuscita di una fetta del proletariato dal completo anonimato, insomma, il suo costituirsi in classe nazionale è la precondizione del prodursi di un effettivo conflitto di classe. E magari della formazione di una nuova generazione d’avanguardie operaie come l’esempio della logistica ci ha limpidamente dimostrato.