Visioni Militant(i): Il Ministro – L’esercizio dello Stato, di Pierre Shoeller
Uscito nel 2011 in Francia ma solo nel 2013 in Italia – anche per questo forse ignorato da distribuzione e pubblico – ci piace riproporre questo film di Pierre Shoeller, regista di scuola “dardenniana” (fratelli Dardenne che non a caso sono i produttori della pellicola). Lo riproponiamo non a caso in questi giorni, per la forte connessione con le vicende della politica ai tempi del virus.
Il film racconta la vicenda di un ministro dei Trasporti francese, Bertrand Saint-Jean (interpretato dal solito, grande, Olivier Gourmet), alle prese con la privatizzazione delle stazioni ferroviarie nazionali, nel momento forse più duro della crisi economica (siamo nel 2010), e nei giorni successivi a un disastro automobilistico che lo vedrà al centro dell’attenzione pubblica. Il governo sembra essere di “destra” (non viene specificato nel film, ma la vicenda occhieggia ai governi Fillon con presidente Nicolas Sarkozy), ma il ministro si oppone alla privatizzazione, e con lui anche il fidato capo Gabinetto ministeriale Gilles, tipica raffigurazione del commis d’etat francese di scuola Ena. Nonostante l’opposizione, la riforma passa e con essa la privatizzazione. A gestirla verrà chiamato lo stesso ministro, nel frattempo promosso al ministero del Lavoro, luogo da cui dovrà gestire le ricadute sociali del processo di svendita di un pezzo di patrimonio pubblico dello Stato. Su indicazione del Primo ministro non lo seguirà però il suo collaboratore, simbolo di un mondo che la direzione economica predominante considera superato.
Questa la trama, rapidamente tracciata. Ad intersecarsi sono più motivi, tutti narrati con accentuato realismo, che fanno luce sulle trasformazioni della politica di questo trentennio, non solo francese. I risultati di questo processo sono oggi sotto gli occhi di tutti (per chi vuol vedere ovviamente), ma questo stesso processo, raccontato altrove – e in primo luogo in Italia – attraverso il linguaggio del grottesco e dello straordinario, se non dell’avventuroso, viene qui evocato con rigoroso distacco. Non è questo o quel protagonista, così come non è questo o quel corpo, casta o ceto “deviato”, ad essere posto al centro della scena. È invece una logica di potere che si fa apparato, un apparato che è politico ed economico, mediatico e culturale. E infine psicologico.
Due i motivi dominanti al centro della riflessione. Il primo, la corruttibilità del potere. Che non è intesa – anche qui, attraverso una narrazione impossibile da trovare nel cinema italiano – come corruzione privata, finalizzata a maggiori guadagni o maggiori riconoscimenti pubblici. Come in tutte le vicende umane, c’è anche questo. Ma l’essenza del discorso è altrove: il potere si riproduce per mezzo di una sua logica, che agisce sulle persone che lo gestiscono. Il potere, in questo caso lo Stato, ha un carattere anche impersonale: se ne fai parte ne accetti, implicitamente e consapevolmente, la sua razionalità. Ed è questa razionalità che porta alla corruttibilità personale. Il ministro contrario alla privatizzazione accetta addirittura di gestirla perché questo richiede lo Stato, cioè il suo orizzonte di senso.
Chiaramente in questa logica agiscono due fattori decisivi. Il primo, il processo di spoliticizzazione della politica e la sua inevitabile tecnicizzazione: Bertrand Saint-Jean ha delle idee, ma non un’ideologia, motivo per cui le sue idee non reggono alla pressione del contesto e del “senso comune”; il secondo, il senso dello Stato in Francia è qualcosa d’altro rispetto all’Italia (e non solo all’Italia), che determina i destini dei dirigenti statali.
La corruzione è dunque alla base del rapporto tra politica e potere in questo XXI secolo. Una corruzione che in Italia – complici anche le vicende della sua classe politica – assume, come detto, i toni del grottesco. Ma la verità risiede altrove. Il personale politico di cui si dota lo Stato, più o meno casualmente selezionato in continue elezioni sempre meno determinanti, è nudo di fronte alla sua logica di riproduzione. Dentro tale logica trovano spiegazione le piccole e grandi vicende di corruzione privata, i privilegi di “casta”, che cede prima ancora di combattere alle logiche che ispirano l’attuale forma del potere politico perché inserite in un ragionamento tecnicizzato di politica come “carriera pubblica”. Nella scalata al potere – che si traduce di volta in volta in promozione, in scatto di stipendio, in ruolo dirigente, in visibilità pubblica, ecc – non può esserci spazio per imperativi morali o presupposti ideologici. È il cinismo, cioè il realismo politico delle classi dominanti, che guida i pensieri e le azioni di chi – anche in buona fede – arriva ad occupare un posto di rilievo politico.
Il modo di raccontarsi della borghesia francese, diverso da quello italiano, è in tal senso più spregiudicato: può fare a meno del grottesco proprio in quanto non ha timore di camuffare le logiche di potere che sottendono il rapporto tra politica e società nel quadro dei rapporti statuali-nazionali. Un estremo realismo introiettato da tutta la borghesia francese, senza complessi d’inferiorità o code di paglia che caratterizzano invece costantemente la borghesia italiana. Proprio per questo, non c’è paura nel raccontarne le logiche profonde, che per l’appunto agiscono spersonalizzandosi dai singoli individui che di volta in volta gli danno un volto.
Il secondo fattore decisivo narrato nel film è la scomparsa di un mondo, quello del gollismo, sostituito da un altro, di diversa sostanza politica. Il capo Gabinetto del ministero è espressione di un certo tipo di capitalismo, incastonato dentro un certo tipo di relazioni istituzionali e sociali: è manifestazione di uno Stato che forma i suoi dirigenti col fine di dirigere l’insieme delle relazioni produttive. Delegando e concedendo parte di queste al capitale privato, certamente. Ma sempre tenendo le redini del governo dell’economia. È per questo che anche il più anonimo dei dirigenti statali francesi, non certo di “sinistra”, in assonanza con un ministro che, anch’egli, non può essere definito “di sinistra”, sono contrari alle privatizzazioni dei settori strategici dello Stato. Non per “ideologia” o per progressismo, per vicinanza alla popolazione subalterna francese o per conflitto con i grandi gruppi privati dell’economia o della finanza: sono ambedue figli della grande borghesia francese, non qualcosa d’altro. Eppure di una borghesia con idee in affanno e in corso di sostituzione. Il “mondo di ieri” va in soffitta, e con esso anche quei ligi rappresentanti che ne difendevano i privilegi di classe. È tempo di uomini nuovi e di politiche nuove, non più meramente “delegate” al privato, ma prodotte e gestite direttamente dal privato. Un privato sempre più inafferrabile, “delocalizzato” o, per la precisione, a-localizzato, finanziarizzato e dunque, infine, globalizzato. La legge della globalizzazione non prevede più grand commis con ruolo di gestione dell’economia pubblica. I grand commis sono oggi evoluti in Ceo aziendali, che dalle loro cariche private gestiscono le relazioni produttive dello Stato.
Questo il mondo che scompare, che è già scomparso, almeno in Occidente. Un fatto ora noto, forse. Eppure i termini narrativi di Shoeller ne consentono una comprensione maggiore, dove Stato, Potere e Economia entrano in profonda relazione, si “indistinguono” e determinano i caratteri della politica e dei suoi squallidi rappresentanti. Di qui, dunque, la cognizione di quello che è stato il processo di privatizzazione e di riduzione dello stato sociale in Italia, oggi sotto gli occhi di tutti grazie alla questione del Coronavirus. Per capire davvero cosa è successo bisogna rintracciarne la logica, e di lì seguire le tracce di un discorso che ci porta alla comprensione della realtà, senza sconti per nessuno, perché tutti ne sono stati, negli anni, compartecipi. Un film come questo ci aiuta in questo lavoro.