Consigli (o sconsigli) per gli acquisti: La linea del fuoco, di Manolo Morlacchi, Mimesis 2019
È una storia di militanti e di guerrieri, di donne e uomini che hanno combattuto per liberarsi di una dittatura e che hanno combattuto perché credevano nel socialismo: due attitudini non sovrapponibili, ma collegate. È anche una storia complicata, chiaramente, perché si tratta di vicende latinoamericane, con il portato di variabili che, noi vecchi europei, fatichiamo a comprendere.
La questione del peronismo, innanzi tutto, vale a dire la “secca” su cui facilmente si incagliano tante riflessioni dei compagni e delle compagne europee sulla politica latino americana del secondo dopoguerra. Sarebbe facile fare spallucce, banalizzando la questione secondo il buon vecchio adagio per cui “tanto sono chiacchiere”. La storia e la lotta di classe la fanno coloro che la vivono, non chi la commenta, evidentemente, ma l’affaire del peronismo è emblematico dello stordimento che caratterizza la sinistra “occidentale” – e quella italiana in particolare – quando si trova ad affrontare variabili poco praticate dalle sue parti. Il peronismo ieri, il populismo oggi, per dire, ma anche i movimenti di liberazione nazionale, la decolonizzazione, l’indigenismo e l’antimperialismo. Manolo Morlacchi, che de La linea del fuoco è l’autore, è ben consapevole di questo problema e non svicola sotto l’ostacolo, tanto che il suo saggio è anche un utile e raro esempio di lettura marxista – quindi secondo i paradigmi della scienza della classe – di Perón e del peronismo senza Perón. Non viene negato, quindi, né l’iniziale posizionamento del Generale argentino al fianco nel nazifascismo, durante la II Guerra mondiale (in coerenza con la precoce fascinazione dello stesso Perón per Mussolini), né il successivo riallineamento in funzione filo statunitense e palesemente anti-sovietica, ivi compreso un fetido corteggiamento al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale. Corteggiamento non corrisposto, peraltro, tanto da suggerire un inevitabile “ripensamento”, che consigliò al Generale un’inversione nazionalista non inedita, in Latino America. Sia chiaro, onde evitare accuse di “rossobrunismo” che oggi vengono diffuse con sconcertante serenità, che: Morlacchi esprime con nitore la sua posizione politica sul peronismo, sin dal primo capitolo: “Il fatto che Juan Domingo Perón sia stata una figura compromessa sin dall’inizio con gli interessi del grande capitale e che contribuì attivamente all’organizzazione della repressione appare storicamente incontestabile” (p. 32) ma, allo stesso tempo, suggerisce come sarebbe riduttivo leggere il legame tra classe operaia e Perón semplicemente alla luce dell’aura antimperialista di quest’ultimo, dimenticando come l’organizzazione stessa delle strutture di difesa e rivendicazione operaia sia stata plasmata proprio da Perón, che sostituì i vertici socialisti e comunisti della Confederazione Generale del Lavoro, mettendovi i suoi uomini e aumentandone notevolmente i tesserati.
È difficilmente confutabile quanto afferma, a tal proposito, Julio Santucho nell’Introduzione: “Il fatto è che la costituzione del proletariato come classe nazionale avvenne in condizioni di chiara subordinazione ideologica, politica e organizzativa al progetto nazionalista borghese di Perón” (p. 14). Qui è insita la spiegazione del perché, da un lato, il peronismo sopravvisse anche all’interruzione – lunga ben diciassette anni – della presidenza Perón e, dall’altro, perché la classe operaia argentina debba essere definita “peronista”, ma non “peroniana” in senso stretto. Che il lascito più cospicuo del “bonapartista” Perón verso i lavoratori argentini sia stato un netto (ma ahinoi effimero) miglioramento della qualità della vita oppure la struttura organizzativa di una solida forza laburista diventa, a questo punto, quasi secondario: che sia stato il pane oppure le rose, fatto sta che proprio durante la prima presidenza Perón la forza lavoro argentina si rende conto della possibilità di edificare una società diversa da quella dominata da quel capitalismo assassino e rapace che il Latino America conosce dal primo contatto con l’Occidente e che l’Europa sta incominciando a conoscere solo nell’ultimo decennio. È altrettanto secondario che ciò sia avvenuto per una sincera (ma assai improbabile) vocazione progressista del Generale o per quel misto di casualità, di contingenza internazionale e di “costrizione” politica interna, oltre che di evidente doti soggettive, che caratterizzarono il secondo dopoguerra argentino. Fatto sta che accadde, in un processo storico che si rivelò permeabile – e qui c’è il “cuore” del lavoro di Manolo Morlacchi (o quantomeno la parte che più scalda il nostro, di cuore) – alle istanze rivoluzionarie, simboleggiate (ma non esaurite) dalle vicende della famiglia Santucho, quasi una copia anastatica, ma in versione rivoluzionaria, dei Perón. Straordinario laboratorio di teoria e di prassi politica, i Santucho hanno rappresentato la dimostrazione vivente di come le particolari condizioni del contesto argentino spingessero anche una parte di borghesia illuminata e benestante a sposare la causa dei diseredati e degli sfruttati, organizzandoli in un partito e in una compagine militare, arrivando a pagare un prezzo altissimo, per quanto “giustificato” dal livello della sfida lanciata al sistema politico argentino, che era quello – non dimentichiamolo – dei militari, del potere clericale, dei latifondisti, degli interessi economici nordamericani. Per questo motivo il libro di Manolo si pone come una “restituzione” nei confronti dei militanti coinvolti nella mattanza argentina, nel dissanguamento di un’intera generazione, nell’ineffabile capacità occidentale di guardare da un’altra parte, di non rinunciare ai Mondiali di calcio oppure di limitare il proprio dissenso da Pinochet alle magliette rosse dei tennisti di Coppa Davis, mentre il Latino America degli anni Settanta organizzava i pogrom e provava ad azzerare geneticamente l’idea stessa di Rivoluzione. Non solo i giovani, ma persino i loro figli, strappati alle famiglie dei desaparecidos con una scientificità che va oltre il “pragmatismo del male” e pare quasi un monito biblico: ‘Maledetto sia tu, i tuoi figli e i figli dei tuoi figli’. Eppure La linea del fuoco (qui sta uno dei più meritati motivi di vanto del volume) è attento a evitare la narrazione dominante, rispetto a uno dei periodi più oscuri del XX secolo, vale a dire il ricordo frammentato dei singoli e delle singole, che finiscono di default – in questo modo – nella categoria delle “vittime”, soffrendo una seconda e nuova “scomparsa”: quella della dimensione di consapevole militante rivoluzionario. Manolo Morlacchi non si presta alla narrazione per schegge (quebrantos, come da titolo di un peraltro suggestivo volume per Nova Delphi, a cura di Delia Ana Fanego) e riconduce a unitarietà la storia dell’Argentina sovversiva del secondo dopoguerra, ribadendo l’organicità di un percorso pure dipanatosi tra tanti rivoli e molteplici tentativi, vittorie, sconfitte, errori. Senza mai abbandonare, però, una stentorea coscienza di classe e una irriducibilità ad accettare lo stato di cose del tempo, come testimoniato dal cartellino di prigioniero di Mario “Indio” Paz, militante dell’ERP e comandante della Compagna del Monte, quando era recluso a Campo de Mayo: ‘Irrecuperabile’.
La storia del Partito Rivoluzionario dei Lavoratori (PRT) e della sua ala militare, l’Esercito Rivoluzionario del Popolo (ERP), è una storia collettiva, come è inevitabile che sia per la storia di un partito e di un’organizzazione combattente: non è retorica da nobili perdenti, ma parte di quella “restituzione” di cui sopra, citare una canzone dedicata ad Ana María Lanzilotto, Domingo Menna, Benito Urteaga e Liliana Delfino, riportata a p. 199: “Non cercate la mia tomba perché non la troverete. Le mie mani sono quelle che vanno in altre mani sparando. La mia voce è quella che sta gridando, in una rivoluzione, quando è vera, o si trionfa o si muore. Il sogno è sempre intero. E sappiate che morirò solo se voi mollerete, perché chi è morto combattendo vive in ogni compagno”.
Il libro di Manolo non si ferma qui: si pone anche come insegnamento per chi voglia fare ricerca su un contesto o un periodo storico lontano dal proprio, senza per questo dover scegliere tra rigore scientifico e passione militante. L’Autore vi è riuscito partendo dai fili della sua memoria familiare, dal suo essere dentro la storia del movimento rivoluzionario, dalla sua consapevolezza di costituire solo un ingranaggio di quest’ultima. Per questo motivo La linea del fuoco è anche un archivio da aggiornare quotidianamente e da moltiplicare, rifiutando non solo il paradigma dei diritti umani (inevitabilmente allergico a qualsiasi politicità, anche solo progressista), ma anche quella vittimologia che, pur trovandosi spesso a essere la migliore delle narrazioni mainstream possibili, non rende giustizia alla forza delle idee e riduce all’incomprensibilità la frase meravigliosa che chiude la nota dell’Autore, a firma di Lucia Volpi, militante di Lotta Continua, impegnata ad accogliere gli esuli argentini in Italia insieme al marito (Vito) e sorpresa nel sapere che quest’ultimo avesse ricevuto la proposta di andare a combattere in Nicaragua con l’ultimo gruppo sostanzioso di militanti del PRT/ERP. Vito declinò l’offerta, per motivi familiari. “Gli chiesero di partire perché – anche se distanti migliaia di chilometri dall’Argentina – per quello che avevamo fatto ci consideravano parte del Partito”.