Gialloverde o gialloblu?
Quando ci riferiamo all’esecutivo Di Maio-Salvini dovremmo parlare di governo gialloverde oppure del governo gialloblu? E, nel caso, questa precisazione rimanda ad una qualche forma di pignoleria semantica, oppure dietro la questione cromatica c’è un dato più prettamente politico? Insomma, aveva ragione Bertoli quando cantava che nella vita ogni cosa ha un suo colore?
Ilvo Diamanti in una recente pubblicazione collettanea sull’analisi del voto scrive: Il segno più marcato delle elezioni politiche 2018 si osserva, probabilmente, sul piano territoriale. Nella geografia politica del Paese. Perché il territorio sottende e riassume diversi fattori e specifiche relazioni “di lunga durata” che intrecciano la storia, la cultura, l’economia, la società. Per questo in Italia, nel corso del dopoguerra, la geografia elettorale si è dimostrata a lungo stabile: caratterizzata da “regioni” politiche riconoscibili, e riconosciute, definite attraverso colori ben precisi, che ne richiamavano “la bandiera” e, dunque, l’identità politica.
Diversi colori che indicavano “diverse Italie”. Il bianco della “prima Italia”, ascrivibile al mondo cattolico, era il colore della DC nonché la tinta prevalente nelle provincie del nord, soprattutto quelle nel Nord-est. Con il passaggio alla Seconda Repubblica quest’area, che per oltre un quarantennio aveva rappresentato un feudo democristiano, si è tinta progressivamente del verde padano affiancata, soprattutto nei centri più grandi, dall’azzurro di Forza Italia. La seconda Italia era quella del rosso più o meno intenso dei partiti della sinistra, dal PCI al PSI. Un colore concentrato essenzialmente nelle regioni dell’Italia centrale e delle grosse città industriali del Nord-Ovest. Infine il meridione, con una colorazione mai ben stabilmente connotata, cromaticamente variabile e fortemente dipendente dall’intervento e dall’influenza dello Stato centrale. E che negli anni della Seconda Repubblica aveva assunto come colore simbolo perlopiù l’azzurro del partito di Berlusconi. Ebbene, questa raffigurazione cromatica, prima con le elezioni del 2013 e poi più radicalmente con quelle del 2018, si è trasformata radicalmente e in maniera probabilmente irreversibile. L’italia bianca, rossa, verde e azzurra della Prima e della Seconda Repubblica oggi è diventata bicolore. Gialla e, per l’appunto, blu.
Se si mettono a confronto le mappe del Paese suddivise per collegi questa trasformazione appare estremamente chiara. Nel 2013 sono ancora visibili i tratti della tradizione politica, con le sue zone ed i suoi colori, ma compare prepotentemente per la prima volta il giallo, il nuovo colore del Movimento 5 Stelle. Il rosso (estremamente tenue) prevale in 36 dei 40 seggi dell’Italia centrale e in 85 dei 228 nazionali. L’azzurro e il verde dell’alleanza tra il PDL e la Lega dominano il nord padano ed il Sud, per un totale di 106 collegi. Il giallo dei Cinque Stelle inizia ad imporsi, però, a macchia di leopardo, con una dislocazione che appare sganciata dalle culture politiche del passato. Se si fosse votato con l’attuale sistema elettorale (Legge Rosato) i grillini avrebbero portato a casa, già al loro debutto, ben 37 collegi.
Cinque anni più tardi la geografia politica appare molto più semplificata e a dominare sono solo due colori. Il giallo dei Cinque Stelle prevale in 92 collegi, quasi tutti concentrati nel Centro e nel Sud. Il blu della coalizione dl centrodestra a trazione leghista nel Nord e anche nelle ex regioni rosse (111 collegi). Mentre il rosso rimane confinato in appena 16 collegi dell’Italia centrale e 9 collegi posizionati nei centri storici delle grosse aree metropolitane (Roma, Milano e Torino). Nel giro di un quinquennio si sono dunque concretizzati due processi apparentemente inversi. Da un lato la “meridionalizzazione” de facto del Movimento Cinque Stelle, che consegue nei collegi del Sud e delle Isole i suoi migliori risultati. Dall’altra, invece, la “nazionalizzazione della Lega”, che abbandona definitivamente le liturgie secessioniste ed indipendentiste ed esce dal recinto del Nord in cui era da sempre confinata proiettandosi in contesti per lei non tradizionali. Un passaggio sottolineato simbolicamente dall’abbandono delle ritualità folkloristiche della lega di Bossi (a breve scomparirà dal simbolo anche Alberto da Giussano, leggi) e dal passaggio dal verde padano al blu salviniano. Questa trasformazione, lo abbiamo già scritto, va compresa appieno, altrimenti si corre il rischio di pensare di avere anora a che fare ancora con gente con l’elmo da barbaro che odia i terroni e beve l’acqua inquinata del Po invece che con una forza politica che persegue un coerente progetto populista di destra.