Tutta la periferia in uno svincolo…
Si dice in giro, si mormora, che il primo giugno dovrebbero finalmente riprendere i lavori per l’allargamento della Tiburtina. Il Comune di Roma e l’amministratore strardinario della Tecnis, l’azienda vincitrice dell’appalto, avrebbero finalmente trovato il modo per evitare che i fondi pubblici stanziati per i cantieri venissero poi stornati per saldare i debiti dell’azienda stessa. Nulla ci toglie dalla testa che questa “accelerazione improvvisa” sia anche (e soprattutto) merito delle mobilitazioni popolari di questi mesi. Come Nodo territoriale della Tiburtina e Carovana delle Periferie avevamo lanciato una campagna per chiedere la fine dei lavori culminata, come qualcuno ricorderà, nell’apertura “dal basso” di uno svincolo terminato da anni, ma in attesa di un collaudo che non arriva mai. A chi legge sembrerà forse una piccola cosa, ma per migliaia di lavoratori che ogni giorno sono costretti a fare quella strada per entrare a Roma si tratterebbe di ore e ore di traffico risparmiate. Un’azione pagata a suon di denunce e multe salatissime, che però ha dimostrato come la mobilitazione possa e debba prevalere sulla rassegnazione. Anche per questo sabato mattina siamo tornati in strada: per dire che non ci bastano i proclami e le conferenze stampa, che eserciteremo un controllo popolare sul reale avanzamento dei lavori, ma che vogliamo pure il potenziamento del trasporto pubblico in periferia e il prolungamento della metro B. L’unico modo per decongestionare davvero un quadrante su cui si scaricano tutte le contraddizioni di uno sviluppo urbanistico scellerato. Mentre volantinavamo ci siamo infatti resi conto che in questo anonimo svincolo è in realtà rappresentata tutta la periferia di Roma, una parte per il tutto, una sineddoche del modello di città neoliberale che si è andato imponendo in questi decenni. E non si tratta di un’estremizzazione retorica buona solo per scrivere un post, basta mettersi sul marciapiede al centro della strada è ruotare lentamente di 360° per incontrare con gli occhi la concretezza di quello che stiamo provando a descrivere.
Cominciamo con l’ex Fabbrica di Penicillina Leo, uno stabilimento che un tempo dava lavoro a oltre 1300 operai e che oggi è poco più di un rudere. Questo monumento alla deindustrializzazione non solo deturpa il paesaggio con le sue migliaia di metri cubi di cemento fatiscente, ma mette a rischio la salute degli abitanti della zona. Al suo interno sono infatti stoccati cumuli di amianto e residui chimici di quando la fabbrica era in attività. Pozzetti da cui c’è il rischio concreto che queste sostanze possano percolare (se già non è successo) nel fiume Aniene che scorre proprio li dietro. Nelle intenzioni della nuova proprietà la Penicillina Leo sarebbe dovuta diventare un polo alberghiero, ma i costi di bonifica sono risultati talmente alti che non se ne è fatto più niente. Nel frattempo questo ecomostro, oggi sotto sequestro giudiziario, è diventato l’ultimo rifugio per quasi 600 disperati, in gran parte migranti, costretti a vivere tra rifiuti in quella che è una vera e propria favela. Con il corollario di tensioni sociali con il quartiere circostante che non è difficile immaginare.
Ruotando un po’ in senso orario incontriamo i fanigerati lavori di allargamento della Tiburtina. Anche in questo caso vale la pena spendere due parole, perchè la storia di questo cantiere è altrettanto significativa. L’idea di allargare la Tiburtina venne comunicata quasi a sorpresa agli inizi degli anni 2000 dall’allora sindaco Walter Veltroni. La sede scelta per il lancio di questo progetto fu simbolica, un’assemblea degli industriali romani, questo per chiarire fina da subito a vantaggio di chi doveva andare quell’opera. All’epoca si era ancora all’apice del successo del cosiddetto “modello Roma”, il Pil della capitale (dopato dalle speculazioni immobiliari) cresceva mediamente più che nel resto del Paese e bisognava garantire che le merci prodotto dalle fabbriche della Tiburtina Valley potessero circolare velocemente permettendo ai Tir di accedere più rapidamente al Grande Raccordo Anulare, e di li al sistema autostradale. Davanti al padronato romano Veltroni parlò espressamente dei problemi di competitività che un sistema infrastrutturale obsoleto creava alle loro aziende. Del diritto alla mobilità dei cittadini già da allora non gliene fregava niente a nessuno. Il nuovo sindaco Alemanno, succeduto a Veltroni, operò significative varianti al progetto pur di accontentare qualche sponsor che rischiava di rimanere escluso dalla spartizione della torta fondi pubblici, e questo contribuì indubbiamente a rallentare l’iter dei lavori. Poi però è arrivata la crisi, e molte delle aziende per cui era stata pensata l’opera hanno iniziato a delocalizzare o a disinvestire. Leonardo-Finmeccanica, Mbda, Rheinmetal, Telecom, Finsiel, l’elenco di chi se ne è andato o ha ridotto drasticamente la propria presenza è lungo e potrebbe continuare. Fatto sta che da quel momento tutta l’urgenza dell’allargamento è venuta meno, i lavori hanno iniziato a rallentare fino a fermarsi definitivamente, complice anche il fallimento della stessa Tecnis, e da alcuni anni un’arteria che attraversa uno dei municipi più popolosi di Roma è stata trasformata in una via crucis. Un calvario che costringe quotidianamente migliaia di lavoratrici e lavoratori pendolari ad ore e ore di file.
Continuando ad armeggiare con questo giroscopio virtuale incontriamo un’area verde incolta, piccola, certamente, ma esemplificativa dello stato di abbandono in cui versa il verde pubblico in questa città. Anche in questo caso entra in gioco un’idea di organizzazione ed amministrazione della cosa pubblica funzionale ad alcuni ed ostile ad altri. Fino a non molti anni fa Roma disponeva di un servizio giardini che impiegava oltre 2000 lavoratori, oggi questo numero si è ridotto a poco più di 200 operai avviati sulla via del pensionamento. Nel bilancio comunale viene annualmente stanziato qualcosa come 1 centesimo per metro quadro di verde da gestire, le assunzioni sono ferme al palo e nelle periferie il risultato è quello che sta sotto gli occhi di tutti. In una città con un tasso di disoccupazione giovanile altissimo e che cresce vertiginosamente in quartieri come San Basilio la gestione del verde potrebbe rappresentare un’opportunità d’impiego per centinaia di disoccupati, eppure si preferisce far affidamento al volontariato di associazioni pro decoro (tipo retake) oppure affidarsi ad idee estemporanee come quella delle pecore e delle mucche tosaerba. Un ragionamento che andrebbe esteso per tutte le municipalizzate che sono cronicamente sottorganico.
Girando ancora un po’ troviamo la Sala Slot sotto sequestro per mafia, ed è solo una delle decine di attività simili che man a mano che sparivano le fabbriche e le piccole aziende hanno trasformato il polo industriale della Tiburtina in una piccola Las Vegas “de noantri”. Infatti, se la si percorre di notte, e si fa attenzione a non sbattere contro i jersey dei cantieri messi di traverso, la Tiburtina diventa improvvisamente una sorta di Flamingo Road, in una lunga e luminosa teoria di VLT che promettono una fortuna impossibile, ma che invece sono buone per ripulire denaro sporco e drenarne altro dalle tasche di chi si illude di svoltare la vita col videopoker.
Chiudendo il giro lo sguardo si imbatte in un’occupazione dell’Asia. Uno stabile che la lotta dei proletari del quartiere ha sottratto alla speculazione fornendo una risposta concreta ad un diritto disatteso, quello all’abitare, e, al tempo stesso, un esempio di come, organizzandosi si possa imporre un’altra ragione rispetto a quella del libero mercato e della finanza.
Oggi, una forza politica e sociale che fosse in grado di fare concretamente questo giro a 360°, affondando le mani in queste contraddizioni senza paura di sporcarsi e mettendo insieme tutti questi pezzi in un progetto di radicamento, organizzazione e contropotere avrebbe probabilmente praterie enormi di cui godere. Era questa, nonostante il suo esaurimento politico, l’intuizione più feconda dell’esperienza della Carovana delle Periferie. Ed è da qui che, in un modo o nell’altro, bisognerà ripartire. E’ la semplicità difficile a farsi.