L’autobus di Fico e la sinistra aristocratica
Al tempo della museificazione del socialismo, era la quantità di stellette e onorificenze appuntate sul petto a distinguere i dirigenti dal popolo. La feticizzazione del riconoscimento aveva una sua logica: veniamo dalla merda – era il ragionamento implicito – abbiamo lottato e sofferto, siamo stati torturati e uccisi, ci avete fucilato, imbavagliato, bombardato, seviziato, incarcerato, affamato, ma abbiamo vinto lo stesso, e ora ci appuntiamo tutte quelle medaglie al valore che la storia ci ha sempre negato. Quelle medaglie che segnavano il confine di classe, la linea non oltrepassabile neanche dal self made man liberale, sono oggi le nostre medaglie. Giusto o sbagliato che fosse, era comprensibile. Quei tempi però sono finiti. Oggi viviamo un’altra epoca, una traiettoria che, nella sua ovvia singolarità, rimanda ad altre fasi, altri movimenti storici. Siamo, come agli esordi della modernità, nell’epoca della massima dipendenza delle classi subalterne al canone politico-culturale borghese. Oggi siamo costretti a far vivere le rivendicazioni di classe dentro un campo totalmente occupato da linguaggi, stilemi, costruzioni ideologiche appartenenti alla cultura padronale. Ed è dentro questo quadro che vanno interpretati determinati simboli. Come il nuovo presidente della Camera Roberto Fico che si reca a lavoro in autobus. Un’azione che, nel momento stesso in cui intercettava gli umori sani e alienati di un popolo che chiede pulizia e onestà perché non sa più chiedere altro, perché confonde l’onestà personale con l’onestà di relazioni umane frutto di modelli ri-produttivi liberati dall’egoismo privato, dava sfogo alla peggiore altezzosità di una sinistra fuori dal tempo, accanita nella presa per il culo di un modello di cui l’alternativa, oggi, è il torpedone di auto blu a sirene spiegate, non i consigli di fabbrica. Ci ricordiamo la “sinistra” al potere in questa “seconda Repubblica”: auto blu, salotti buoni, giacche di cachemire e rendite di posizione come la peggiore destra democristiana. Da quale pulpito dovrebbe venire la predica?
E’ ovvia – per “noi” – la strumentalità di atti del genere, la natura pretestuosa e sviante del facile specchietto populista in chiave moralizzante. Ma dopo un trentennio di ruberie private, di massimi scandali finanziari, di gigantesche truffe ai danni della cosa pubblica, di marcescenza definitiva di un sistema di potere disconnesso dalle popolazioni subalterne, quale l’alternativa simbolica praticabile se non l’esempio del completo disinteresse personale? Non basta, certo, ma – attenzione – non è inutile. Ci ritroviamo così nel paradosso secondo il quale ad un’azione semplice e basilare (ma proprio per questo simbolicamente importante!) corrisponde il ghigno aristocratico di una sinistra senza più ruolo né idee, divaricando ulteriormente quel rapporto tra sinistra e “popolo” che al contrario avrebbe bisogno di una ricucitura basata sulla modestia, non sull’aristocratico sbeffeggiamento di sentimenti incongruenti e disordinati perché frutto di quella dipendenza politico-culturale che oggi costituisce il principale problema delle classi dominate.