Ripresa, crescita, benessere
Sabato scorso è apparso sul Corriere un fondamentale articolo per cogliere la direzione del futuro prossimo. Ancora vittime della retorica della crisi, rischiamo di arrivare in ritardo alla comprensione di questa ripresa economica che è sempre più strutturale. Secondo i dati della produzione industriale di Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna, nonché secondo i commenti di molti dei protagonisti industriali del nord Italia, «il Veneto sta crescendo a ritmi cinesi»: +6,3% la produzione industriale in Veneto; +5% in Lombardia; anche l’Emilia-Romagna si attesta su queste cifre dichiara Pietro Ferrari, presidente degli industriali emiliani: «anche i nostri numeri sono ottimi. Non ci fosse la crisi del mattone viaggeremo tranquillamente alla velocità di quel 2% del Pil, obiettivo di sempre». Addirittura, aggiunge Giuseppe Milan – Unindustria Treviso – «le aziende non riescono a trovare la manodopera che cercano». Siamo, da un anno abbondante, dentro un ciclo di ripresa economica che, soprattutto mediaticamente, ha rapidamente obliterato le riflessioni sulla crisi. Ripresa economica non significa però crescita in senso generale: ancora oggi i dati della domanda interna rimangono bassi, vicino allo zero. La ripresa sembra essere il combinato di due fattori: da una parte l’effetto traino del contesto economico europeo e delle esportazioni internazionali; dall’altra le “riforme” del mercato del lavoro che hanno consentito una flessibilità occupazionale a esclusivo vantaggio delle imprese. La somma di questi due fattori incide sul rapporto tra ripresa e crescita. La ripresa sembra essere evidente, ma questa, essendo basata su export e lavoro povero, non ha il potere, né il potenziale, di distribuirsi socialmente. Aumenta, molto leggermente, il lavoro, ma rimane comunque lavoro povero, precarizzato, sottopagato, a costante rischio nuova disoccupazione. Questi fattori spezzano il legame, d’altronde già molto labile sebbene esistente, tra crescita e benessere: anche in presenza di crescita, saremo sempre più destinati a un modello sociale senza benessere diffuso. E questo perché un modello produttivo orientato all’export non ha interesse a sviluppare forme di mercato interno sostenute da una forte domanda, cioè da stipendi capaci di ri-acquisire parte della produzione nazionale. Non è un caso che le aziende maggiormente colpite dalla crisi siano quelle orientate al mercato interno; le aziende inserite nelle catene del valore internazionale si sono velocemente riadattate al nuovo corso, perché i propri clienti non sono più in territorio italiano, ma a livello globale (più spesso, a dire il vero, altre aziende importatrici, visto che il cuore dell’industria italiana sta nella trasformazione di semi-lavorati). La forma che ha assunto lo sviluppo capitalista occidentale post-crisi sembra essersi strutturata attorno a un modello di relazioni produttive estremamente polarizzate anche in presenza di una sostenuta ripresa economica, addirittura in presenza di una leggera ma stabile crescita del Pil. In pratica, il Pil aumenta contestualmente al numero dei lavoratori poveri. Una dinamica sconosciuta al capitalismo almeno dalla Seconda guerra mondiale in avanti.
Se questa è, approssimativamente, la situazione dal punto di vista economico-sociale, di conseguenza anche la politica reagirà sulla scorta del nuovo quadro di riferimento. A livello mediatico e culturale il concetto di crisi verrà sempre più espunto dai ragionamenti pubblici: la nuova retorica è quella di una crescita sostenuta da solide percentuali statistiche. La maggiore platea di poveri o impoveriti, però, continuerà ad alimentare il filone “populista”, perché la retoriche pubbliche si scontreranno con le buste paga mensili e con il caro vita. Di sicuro, andrebbero aggiornati una serie di temi cardine che hanno costituito la base (ma non la fortuna) politica delle sinistre in questo decennio: parlare di crisi in assenza di crisi non farà altro che alimentare l’incomprensibilità del proprio messaggio politico.