L’inquinamento come risultato del comportamento amorale del singolo individuo
La polemica sui sacchetti biodegradabili a pagamento, che tanto ha indignato il “popolo del web”, appare come l’ennesimo tassello volto all’individualizzazione dei problemi sociali prodotti dal capitalismo. Un sistema incapace di risolvere le sue contraddizioni, in questo caso quella fra capitale e ambiente, ma formidabile nell’escogitare vie di fuga ideologiche. Nel caso dell’inquinamento, uno dei temi centrali nel dibattito massmediatico di questi decenni, la progressiva devastazione del sistema ambientale appare causata dalla somma dei comportamenti individuali delle singole persone. Si inquina perché non si ricicla abbastanza, perché non si vogliono pagare costi aggiuntivi, così come si consuma troppa acqua potabile perché si lascia il rubinetto aperto mentre ci si lava i denti, e così via. Il dibattito di questi giorni è davvero, come suol dirsi, paradigmatico. Il confronto sembra essere chiuso entro due sole scelte possibili: chi vuole pagare il costo dei sacchetti per “sensibilità ambientale”, e chi non vorrebbe pagarlo per menefreghismo. Splendida la chiusura, ieri, di un articolo del Corriere: «Siamo 7,4 miliardi e presto arriveranno un miliardo di africani e uno di asiatici. Cambierà tutto, e se andrà meglio o peggio dipenderà da noi ma meglio saperlo subito: un nuovo mondo è possibile, si certo, ma costa». Volete l’ambientalismo? E allora pagate. Il problema è che l’inquinamento non è il prodotto dei singoli comportamenti individuali. Non inquiniamo perché “siamo troppi”, e neanche perché “ci comportiamo male” (certo siamo troppi e ci comportiamo male, ma ambedue le cose non spiegano l’inquinamento nel mondo). Il mondo è inquinato perchè così è organizzato il modello produttivo. Un interessante report di Carbon disclosure projest ha evidenziato come il 71% delle emissioni totali di Co2 nel mondo è prodotto da sole 100 aziende private. E questo non da oggi, ma dal 1988. Altrove, nel rapporto del Climate Accountability Institute, si dice più o meno la stessa cosa: dal 1751 (nientemeno) al 2010 il 63% delle emissioni totali di Co2 è stato prodotto da 90 aziende private. La metà di queste emissioni totali sono state, peraltro, prodotte solo in questi ultimi venticinque anni. Tutte le aziende private protagoniste del degrado ambientale producono petrolio, gas o carbone. Ma non è tutto. Riguardo alla famigerata plastica, «l’imballaggio si conferma il principale consumatore di materie plastiche con il 39,5% del totale, seguito dalle costruzioni (20,1%) e – a distanza – automobile (8,6%)» (qui). E’, dunque, la moltiplicazione esponenziale degli imballaggi la causa primaria dell’inquinamento da plastica nel mondo. Questo è per l’appunto un problema generato dal modello produttivo, che impone il consumo di imballaggi anche quando non servono (soprattutto quando non servono). Arriviamo dunque al costo del sacchetto biodegradabile. Tale costo, che dovrebbe essere pagato dalle aziende che materialmente inquinano (le imprese della plastica) o, in alternativa, dalle aziende che grazie a quegli imballaggi ci guadagnano (i supermercati), viene caricato totalmente sui singoli individui, responsabilizzandoli per un problema non generato da loro e che non avrà mai soluzione se affrontato a valle e non a monte. La tassa dovrebbe colpire l’azienda, questa la sposta sul consumatore, e il tutto viene presentato come «norma avanzatissima che una volta tanto ci ha visto leader in Europa», secondo le parole di Stefano Ciafani, direttore generale di Legambiente. Conviene anche ricordare che la tassa è una trovata tutta italiana. La direttiva Ue indica solamente l’obiettivo di ridurre l’utilizzo delle buste di plastica, direttiva che, per come formulata, riguarda i produttori di plastica e non i consumatori finali, che sono di fatto impossibilitati a scegliere se usare o meno l’imballaggio attraverso cui viene venduto il prodotto. Tutto ciò non fa che confermare la pacchia della “green economy”, che mette a profitto le istanze ambientaliste moralizzando addirittura la scelta dei consumi finali. Un circolo vizioso che nulla ha a che vedere con la soluzione al disastro ambientale in corso, molto invece con quelle vie di fuga che il capitalismo, magistralmente, ha la capacità di produrre continuamente.