Come si racconta la mafia: Gomorra da Garrone a Sollima
Sul Corriere di venerdì 8 dicembre, è apparso uno straordinario articolo di Giovanni Belardelli: «Gomorra realtà virtuale di un mondo privo di virtù» (qui). Straordinario almeno per i tempi che corrono. Rimandiamo integralmente alla lettura del pezzo, ma vogliamo comunque segnalarne alcuni passaggi dirimenti. Da tempo proviamo a indagare determinati meccanismi narrativi apparentemente asettici, in realtà volti alla ridefinizione dei riferimenti culturali della società nel suo insieme. La serie tv Gomorra in questi anni si è incaricata di rappresentare meglio di ogni altro prodotto commerciale il vertice di questa operazione d’interventismo culturale. Scrive Belardelli:
«La fiction – si è detto – fornisce una rappresentazione indulgente se non addirittura positiva della camorra, con il rischio di indurre i giovani all’emulazione. […] Gomorra si fonda sul presupposto di una rappresentazione crudamente realistica del male. Ma il problema è proprio questo: siamo sicuri che la rappresentazione della camorra fornita dalla serie tv sia realistica? O non è vero piuttosto che la vita concreta del camorrista è più squallida di quanto non appaia nelle puntate di Gomorra? Quella del camorrista è la vita di uno che non può neppure andarsi a prendere un gelato o portare i figli a fare un bagno al mare, è un’esistenza disgraziata, ha osservato Salvatore Striano, aspirante camorrista da ragazzino e poi diventato attore e scrittore di successo. La rappresentazione fornita dalla fiction, invece, è quella di vite «fino all’ultimo respiro», veloci e violente come un videogioco; è una rappresentazione che rischia di far diventare Ciro l’Immortale e Genny Savastano, oltretutto impersonati da due attori bravissimi, dei modelli per tanti ragazzini napoletani e non solo. […] Se le cose stanno così, se Gomorra non fornisce una rappresentazione effettiva, per quanto crudele, della realtà, viene meno anche ciò che i suoi ideatori e realizzatori continuamente rivendicano: cioè il fatto che la serie rappresenti un «fortissimo atto di denuncia», come ha dichiarato Marco D’Amore/Ciro l’Immortale a questo giornale».
Con appropriata dimestichezza critica, Belardelli esprime alcuni concetti che, casualmente, siamo andati dicendo anche in questi giorni. In primo luogo, queste operazioni commerciali si presentano come spaccati di realismo. Nonostante ciò, nulla di quanto rappresentato è reale: fumetti (o videogiochi, come li chiama l’autore dell’articolo) che insistono sulla vita spericolata e «fino all’ultimo respiro» dei protagonisti criminali, una vita che però non esiste. La vita del mafioso, del camorrista, è una vita eticamente e umanamente deprivata. Il risultato è il capovolgimento delle intenzioni manifeste: «l’atto di denuncia» si traduce in atto di indulgenza. Smascherando così le intenzioni profonde.
Si dirà che dovrà pur esserci un linguaggio adatto al racconto della mafia che non scada nell’estetismo e nella malcelata agiografia mafiosa. Non solo esiste, ma è proprio il progenitore della serie, cioè il film di Matteo Garrone, a fornire l’esempio di riferimento. Preveniamo l’obiezione: Matteo Garrone è, forse, il più importante regista italiano, e Gomorra il più importante film italiano degli ultimi dieci anni. Stefano Sollima è invece una sorta di Renè Ferretti, che prima di aver imbroccato il treno giusto di Romanzo criminale aveva girato «alcuni episodi di Un posto al sole», nonché il notevole Ho sposato un calciatore, miniserie televisiva di Canale 5. Insomma, uno gioca in Champions League, l’altro a calcetto.
Gomorra (il film) è il canone del nuovo realismo italiano. Mentre nella serie viene proposta una “moralità criminale”, opposta e al tempo speculare alla moralità ufficiale, annullando qualsiasi rapporto assiologico tra giusto e sbagliato, nel film viene sviscerata la totale amoralità del camorrista, che non possiede alcun riferimento morale, neanche fosse interno al proprio circuito criminale. L’indagine fisica e psicologica del camorrista in Garrone raggiunge ineguagliate vette di realismo: viene così disattivato qualsiasi processo inconscio di identificazione, sia esso fisico, psicologico o culturale. Una massa anonima di relitti umani, fisicamente devastati non solo (o non tanto) dalla droga, ma dall’assenza di qualsiasi presupposto etico. Non c’è ribellione, c’è solo adorazione del feticcio denaro.
Ciò che distingue ogni mafia dalla criminalità comune, anche fosse d’alto livello, è il suo livello di razionalità. La mafia è un sistema. Come tale, la sua ramificazione è pervasiva, non nelle forme feticizzate visibili nelle serie, ma nelle normali (e legali) relazioni produttive. Il rapporto tra camorra ed economia legale non è fondato, come nelle varie fiction, sulla patologia: il politico corrotto, l’azienda corrotta, eccetera. E’ fondato sulla fisiologica dinamica capitalistica: la competitività, cinese o napoletana, nel settore tessile e della moda; lo smaltimento dei rifiuti pericolosi delle grandi aziende del nord; la logistica portuale; lo sfruttamento dell’immigrazione. Settori che non hanno bisogno del mafioso che minaccia ritorsioni o del politico disponibile alla corruzione: è nella normalità produttiva, nelle fisiologiche relazioni economiche che impongono la mafia come soluzione alle necessità competitive, che vanno ricercati di caratteri endemici del rapporto tra economia “illegale” e “legale”. E’ un processo triste, senza fuochi d’artificio, sparatorie o ambientazioni western. E’ una normalità, frutto di una razionalità. Ed è proprio questo che emerge nel film e che invece viene negato nelle serie, che raccontano di una criminalità come diversa moralità.
Senza arrivare a tanto, fa comunque piacere notare come non tutto il dibattito culturale sia schiacciato sull’adorazione del duopolio Sky/Netflix. Purtroppo, proprio perchè quella razionalità di cui sopra esiste in quanto legata assieme dal profitto, poco contano le posizioni critiche di fronte al fatturato dell’infotainment. Più che una battaglia di civiltà, si limita ad essere una testimonianza di dignità.