La “massima peccaminosità” di Diego Fusaro
Di fenomenologie del delirium fusariano ne è ormai pieno il web. Ancora oggi, quella scritta da Raffaele Alberto Ventura ci sembra la più centrata nello svelare la natura del “pensiero” fusariano, ibrido posto all’incrocio tra la spettacolarizzazione mediatica e la demenza politica. Ad interessarci sono le critiche, ovvero le argomentazioni utilizzate per smascherare il “fusarismo”. Non sappiamo se Fusaro sia consapevole del compito di cui è investito nella sua onnipresenza mediatica, ovvero la macchiettizzazione del marxismo. Fusaro, a prescindere da cosa pensi di se stesso, arreda i palinsesti televisivi in quanto marxista, ma viene ospitato e sostenuto in quanto ridicolizzazione del marxismo. La meta-narrazione così disposta presenta il marxismo per bocca di Fusaro (cioè di “quelli come” Fusaro: intellettuali con la sciarpa al collo e fuori dalla realtà), Fusaro come soggetto caricaturale, dunque il marxismo come parodia intellettuale. La critica a Fusaro però diviene sempre meno nitida man mano che ci approssimiamo alla sinistra. Per la stragrande maggioranza della quale Fusaro è soltanto «un fascista» (o, nelle sue sfumature, «rossobruno», «geopolitico», eccetera). Per una piccola parte, Fusaro è invece un marxista, di quelli che hanno ancora il coraggio di dire le cose come stanno e via dicendo. Ci sembra che le due invettive manchino di individuare la contraddizione principale, che ha Fusaro come protagonista ma che non riguarda soltanto lui ma l’intellettualità politica nel suo complesso.
C’è soprattutto un fattore che nessuno sembra rilevare. Nonostante Fusaro si presenti come «allievo di Marx», lui rifugge coscientemente qualsiasi ipotesi di militanza politica. Eppure alla base del marxismo c’è la necessità di trasformare il mondo, non solo di interpretarlo. In questo senso il termine militanza dev’essere inteso nella sua essenza: non stiamo dicendo che è marxista solo colui che esce di notte ad attacchinare dei manifesti o cose simili. Intendiamo con militanza la disponibilità di mettere in comune il proprio pensiero in un ambito organico e collettivo. Il marxismo è organico a una comunità o non è. Al contrario, Fusaro si fa vanto della sua “libertà” di pensiero, considerandola un presupposto necessario alla filosofia in quanto tale. E’ un presupposto vero – attenzione – ma al tempo stesso contraddittorio. Ed è per questo che la (presunta) razionalità analitica espressa da Fusaro si presenta fredda e impotente. Perché rimane un “pensiero” incapace di attivare una politica, cosa questa posta alla radice del marxismo, che rimane una filosofia della prassi. Senza prassi non c’è marxismo: un fatto questo dimenticato non solo da Fusaro ma dalla sequela di marxismi dottrinari che infestano il sottobosco della politica. Questa parabola è alla radice di una conflittualità latente, perché c’è vera filosofia solo in presenza di libertà e autonomia di pensiero, ma questo pensiero può trasformarsi in prassi solo se disposto ad essere imbrigliato nei doveri dell’organizzazione politica. L’intellettuale marxista è costretto a fare i conti con questa organicità, una costrizione castrante ed esaltante al tempo stesso. Negando in via di principio questa dialettica, Fusaro conferma la sua essenza anti-marxista, e la sua “razionalità”, ammesso che possa essere individuata nell’intricato smog verboso che circonda il suo pensiero, risulta incapace non solo di trasformare il presente, ma anche di comprenderlo pienamente.
Anche qui, occorre avvertire che organicità non si traduce automaticamente con “tessera del partito”: l’intellettuale organico non è l’intellettuale di partito, ma colui che milita effettivamente dentro un campo di forze riconosciuto, entro il quale è disposto a piegare il suo pensiero (e i suoi comportamenti) alle necessità che la politica impone. Anche per questo, imprecisa appare l’accusa di fascismo. Fusaro non è fascista, quanto un tipico riflesso liberista che consente ogni opinione, soprattutto se dissidente, purché rimanga confinata nell’ambito, per l’appunto, dell’opinione in se stessa. Ogni opinione che non si traduce in prassi rafforza il sistema politico-culturale dominante, perché ne certifica il carattere fondante: il ruolo ecclesiale di sistema onnicomprensivo, entro cui può darsi qualsiasi filosofia, fuori da cui non può essere immaginato alcun orizzonte alternativo. Tanto per dire, Fusaro fa mostra di originalità ripetendo il superamento di “destra” e “sinistra”, senza accorgersi che è l’esatta fotocopia del mainstream ideologico liberale, secondo il quale le differenze politiche “non esisterebbero più” – se mai siano mai esistite, chiaramente.
L’assenza di una critica dell’economia politica svela il secondo tratto anti-marxista di Fusaro. Qualsiasi filosofia che non parta dal disvelamento dei tratti oggettivi di una società finisce per risolversi in fenomenologia complottista. Il pensiero di Fusaro è infatti tutto volto alla ricerca delle strategie politiche di questa classe capitalistica transnazionale che procede plasmando e disponendo la società secondo proprie intenzioni soggettive. In Fusaro questo fatto è manifesto, ma una traiettoria similare è percorsa da gran parte della sinistra radicale odierna. Cambiano obiettivi e linguaggi, ma il fusarismo è molto più trasversale di quanto si pensi. Se il proprio ruolo storico è fondato sulle ragioni di una qualche volontà, sarà questa a spiegare il presente, perdendo di vista il quadro generale, oggettivo e storicamente determinato. Per dire, si può (parzialmente) concordare con Fusaro quando, parlando di migrazioni, svela la loro natura strumentale alle necessità del capitalismo. E’ un dato di fatto che i migranti servano al capitale, che ne incentiva continuamente i flussi proprio perché utilizzati come mano d’opera a basso costo su cui viene fondata l’attuale competitività produttiva occidentale. Ma questo è il risultato di un governo dei fenomeni migratori, non di una strategia preordinata, come invece indica Fusaro. I flussi si formano per molteplici cause storiche, sociali e politiche, non per un qualche piano sovranazionale di “sostituzione” di mano d’opera autoctona.
Ma questo vale per qualsiasi altra polemica portata avanti dal Nostro. Dal gender al ’68, Fusaro confonde la capacità del capitale di governare le contraddizioni che si manifestano, con la presenza di un (del solito) grande piano del capitale che dalla notte dei tempi avrebbe modellato il nostro presente. La critica dell’economia politica serve d’altronde proprio a questo: a slegare i processi storici dalle volontà politiche soggettive (di ceto, di classe, d’élite), ancorandoli all’essenza stessa del modello di sviluppo, che procede a prescindere dalle volontà dei singoli protagonisti (non a caso il capitalismo, per Marx, è un sistema *anarchico*, senza progetto generale). Venendo meno l’economia (o ridotta a balbuzienti cliché sottoculturali), a scomparire non è solo il quadro generale dei rapporti di classe, ma anche i «processi di soggettivazione» (per dirla in linguaggio foucaultiano-agambeniano) che questi rapporti producono. E infatti in Fusaro, e in “quelli come” Fusaro, i soggetti di classe materialmente inconciliabili col capitalismo non discendono dall’analisi dei rapporti di produzione, e dal ruolo che i diversi soggetti hanno in tali processi, ma dalla «disponibilità», o «volontà», alla lotta. Purtroppo in questa deriva si avverte il peso della tarda eredità di Costanzo Preve, disposto, nell’ultimo scorcio della sua vita, a farsi portavoce di un bieco rossobrunismo che ne ha deformato la sua – questa si davvero importante – riflessione marxista originale ed eterodossa.
Al dunque, Fusaro non sembra né “fascista” né “comunista”. Qualcuno lo definisce “sovranista”, termine che però ha assunto nel frattempo un’accezione politicamente inefficace (il sovranismo è identificato, nel linguaggio liberale, con la lotta alla globalizzazione, di per sé accomunante tanto l’estrema destra quanto l’estrema sinistra). Dietro il pensiero di Fusaro si scorge il vuoto cosmico in cui è costretta a muoversi un’intellettualità orfana della lotta di classe. Ma per esserne portavoce, uno come Fusaro non avrebbe passato l’esame d’ammissione. E’ questa assenza che eleva oggi un ragazzino logorroico in intellettuale.