Il ritorno della crescita, un problema più serio del previsto
Quale che sia la portata reale dell’attuale crescita economica, c’è un dato che inciderà notevolmente sugli orizzonti politici d’ogni ordine e grado: la crisi è alle spalle. Che questa affermazione, strombazzata ovunque, non corrisponda a verità, è (per il momento) un dato di fatto materiale con cui continuerà a scontrarsi una certa rappresentazione della realtà. Nondimeno, non va sottovalutata la forza retorica del bombardamento mediatico in cui siamo immersi. Nel racconto pubblico, sia esso proveniente dai giornali, tg, social network, cultura mainstream, eccetera, siamo fuori dalla crisi e dentro un nuovo ciclo d’espansione economica. Per dire, un’intera pagina del Corriere della Sera di ieri – domenica 29 ottobre – ci illustrava la «sorpresa Italia», nel senso di una crescita più alta del previsto, addirittura più alta di Francia e Germania. Notizia, questa, che seguiva di un giorno il rialzo del rating operato da Standard&Poor’s, ultima di una seria di notizie strabilianti sulle nostre prestazioni economiche. La realtà, come detto, è ancora diversa. Sul piano dei rapporti politici, però, questa crescita mediatizzata contribuirà – già è in atto un riposizionamento generale – a cambiare i discorsi della politica sedimentati in questo decennio. In primo luogo, l’Unione europea.
Per un decennio la critica alla Ue si è rafforzata politicamente dalla crisi economica in corso, legando i due aspetti: la crisi è colpa (anche) del progetto europeista. Ma in presenza di “crescita”, come si riuscirà a veicolare una critica della Ue senza l’ausilio indispensabile del peggioramento dell’economia? Da questo punto di vista M5S e Lega nord hanno già avviato un proprio riposizionamento che dovrebbe illuminare riguardo il prossimo futuro: la Ue è letteralmente scomparsa dai radar della polemica politica. Stiamo parlando di organizzazioni politiche capaci di fiutare l’aria che tira, almeno elettoralmente (anche perché hanno i soldi per studiarla). Il declino della polemica antieuropeista risponde a diversi fattori, ma è innegabile un certo legame con il ritorno al segno più davanti al Pil. Se il contesto europeista è capace di generare una crescita economica, meno comprensibile potrebbe diventare assumere la Ue come protagonista dell’impoverimento generalizzato. E infatti la Ue è scomparsa dai giornali, se non per lodarne le capacità d’adeguamento o per rimbrottarla sulla questione migranti. La lotta alla Ue rimane però centrale nell’individuazione del centro della governance ordoliberale. Come portarla avanti è il cuore della questione, che non può non fare i conti col cambiamento di scenario economico.
In secondo luogo, la crescita economica mediatizzata oltre l’eccesso produrrà – già produce – un cortocircuito nel cosiddetto “populismo”. Anch’esso infatti vive(va?) di luce riflessa: peggiore la situazione economica, migliori le chance politiche delle forze populiste. Una dinamica consueta nella politica, quella per cui le forze “anti-sistema” prevalgono nei momenti in cui il “sistema” è, o appare, meno capace di migliorare il tenore di vita generale della popolazione. Ma se il sistema si va rafforzando, quale l’alternativa politica all’alternativa rappresentata in questi anni dal populismo? Già oggi gli umori elettorali, almeno quelli sondati dagli istituti di ricerca, segnano un chiaro ribaltamento dello schema ultradecennale: se in questo decennio chiunque presiedesse il governo andava incontro all’inevitabile flessione elettorale, oggi Gentiloni è il leader politico più apprezzato, proprio perché guida il governo della crescita economica. E’ un fatto, questo, profondamente innovativo, addirittura stravolgente: in Italia chi governa perde voti, e invece oggi chi governa li guadagna. Certo il Pd è inflessione costante, ma la forza di Gentiloni deriva anche dall’essere considerato un outsider del Partito democratico, quindi non assimilabile ai suoi vertici e alle loro condotte politiche (Renzi in primis). Stiamo parlando – è bene ricordarlo – di una rappresentazione della realtà, non della realtà, ma ignorare o sottovalutare l’importanza di questa rappresentazione ci impedirebbe di cogliere i segnali di fondo di cui sopra.
Il terzo fatto, in simbiosi con gli altri due appena ricordati, è il rafforzamento del sistema politico nel suo complesso. Questo potrebbe trovare declinazione in vari aspetti: l’aumento dell’elettorato/diminuzione dell’astensionismo; maggiore consenso rispetto alle strategie di crescita e di governo liberiste, valutate non più fautrici di povertà ma, al contrario, generatrici di benessere; conseguentemente, diminuzione del consenso attorno a proposte politiche di rottura, qualsiasi forma e direzione questa possa presentarsi.
Lo scenario appena descritto è soltanto ipotizzato e, in ogni caso, tendenziale. Non verrà meno dal giorno alla notte uno schema dei rapporti politici che si è imposto in questo decennio abbondante. Oltretutto, non è neanche detto che la rappresentazione della realtà sopravanzi stabilmente la realtà stessa, che è ancora caratterizzata da una mancata redistribuzione dei redditi, dunque di una povertà relativa pronunciata e trasversale. In altre parole, finché la “crescita” sarà fondata su export, precariato e disoccupazione di massa, difficilmente il sistema riuscirà ad agglutinare quel consenso che inevitabilmente porta con sé ogni periodo di vera crescita economica (ma la Germania, caratterizzata da un sistema produttivo fondato su export e precariato diffuso, smentisce anche questa certezza).
Nonostante ciò, se una traiettoria simile dovesse palesarsi nel breve-medio periodo, almeno un fattore andrà incrinandosi nelle politiche d’opposizione al sistema liberista. L’alleanza sociale di fatto del mondo del lavoro dipendente subordinato con una piccola borghesia impoverita ed estromessa dalla redistribuzione dei profitti europeisti, alleanza di fatto che poi è stata alla base del rafforzamento populista, andrà inevitabilmente in crisi. Il populismo si regge su di un’alleanza popolare determinata dalla crisi e dal processo europeista. Se uno di questi due fattori viene meno, anche il suo riflesso politico sarà costretto ad adeguarsi o a scomparire. Ad ogni modo, è ancora presto per fare previsioni, qualunque esse siano. Rimane il fatto che la “fine della crisi” – qualsiasi cosa questa definizione voglia dire oggi in Italia – impone un adeguamento dei nostri linguaggi.