Mitologemi narrativi reazionari sul Tiburtino III
Tutta la vicenda riguardante lo “scontro” tra “residenti” e migranti in corso al Tiburtino III può racchiudersi attorno alla “questione sicurezza”. Questo il mantra agitato tanto nel quartiere romano quanto a livello nazionale quando si parla di migranti. I migranti porterebbero insicurezza, di vario tipo. Il mito della sicurezza però è appunto un luogo comune discorsivo che non solo non trova fondamento nella realtà, ma viene addebitato all’estraneo, al migrante in questo caso, quando semmai ha provenienza molto più prossima e interna alle relazioni tra autoctoni presenti sul territorio. Come abbiamo visto, l’«aggressione» di cui sarebbe stata vittima una donna del quartiere, da cui è partita la cagnara razzista contro i migranti, in realtà si è dimostrata un’aggressione a un migrante di passaggio. Notizia di ieri è invece che l’aggressore, tale Pamela Pistis, è stata arrestata per furto. Lungi da noi condannare o soltanto speculare su di una persona inquisita per un reato sociale: speriamo esca il prima possibile dal carcere o, per meglio dire, dagli arresti domiciliari dove si trova in questo momento. Sorgono però due problemi rispetto a questa vicenda. Il primo, i “furti” commessi da questa persona non sembrerebbero necessità derivate dalla propria condizione socio-economica, quanto una sorta di gioco perverso che lei e il proprio compagno compivano nel supermercato sotto casa, riempiendosi le buste di prodotti e uscendo senza pagare, minacciando peraltro i lavoratori del locale. Anche qui, ci interessa il giusto. Ma se la questione sicurezza, per come viene agitata, si concentra sui “migranti che rubano”, scopriamo invece che nel quartiere, a “rubare”, sono piuttosto gli italiani. Peraltro, sempre questa Pamela addebitava ai migranti presunte contusioni sulle braccia, contusioni che avrebbero dovuto dimostrare la pericolosità, nonché la violenza, generate dalla presenza migrante nel quartiere. Successivamente, abbiamo scoperto che le contusioni in questione gliele aveva provocate l’italianissimo compagno, alcune peraltro davanti al presidio umanitario. Anche qui, le minacce alla sicurezza sulle povere donne del quartiere proverrebbero dal deterioramento delle relazioni autoctone più che da presenze “esterne” al quartiere.
Un altro pezzo della narrazione razzista su cui viene fondato lo sciacallaggio contro i migranti presenti al Tiburtino III è il progressivo svuotamento delle classi della scuola elementare Fabio Filzi sita proprio in via del Frantoio, vicino al presidio umanitario. Ieri però ha parlato la preside della scuola, descrivendo una realtà diverse dal mainstream mediatico di questi mesi: «classi chiuse prima dell’arrivo del centro […] Il trend è in calo da anni. Ho chiuso alcune classi anche circa 10 anni fa perché non c’erano iscritti, e dunque prima dell’arrivo della Croce Rossa […] Ho sempre avuto difficoltà a formare delle sezioni al Tiburtino III». La preside fa finalmente luce su di una realtà che nel quartiere è risaputa da anni. Sono gli insegnanti a non voler andare nella scuola elementare del Tiburtino III, e i motivi di questa fuga dei docenti sono noti da anni e hanno una spiegazione molto più prosaica: hanno paura dei genitori (italianissimi) dei figli iscritti. Peraltro, data questa situazione, ripetiamo, conosciuta da tutti, le famiglie residenti nei quartieri limitrofi, come Colli Aniene, evitano di mandare i propri figli in quella scuola. L’insicurezza e il conseguente svuotamento delle classi elementari, deriva anche qui dalle relazioni tra italiani presenti nel quartiere. Bullismo, spaccio, degrado, piccola e grande criminalità: sono questi i motivi, generati esclusivamente dagli italiani, che determinano il disfacimento del quartiere, rovinando le relazioni sociali presenti e imbarbarendo un territorio difficile e abbandonato. In questa triste dinamica i migranti di via del Frantoio non c’entrano nulla. Per crederci basta passeggiare proprio per via del Frantoio, una via sempre deserta e dove l’insicurezza semmai è data dall’assenza di presidii sociali e non dalla presenza dei quaranta richiedenti asilo.
Dunque, chi genera insicurezza nel quartiere?