Chi sono i comunisti?
[Mesi fa, il collettivo politico di Esc ci chiese di partecipare, con una breve relazione, alla Conferenza sul comunismo – C17 – per celebrare l’anniversario della Rivoluzione. Come direbbe Wu Ming, si trattava di sconfinare abbondantemente dalle nostre “zone di comfort”, tanto politiche quanto culturali. Molte cose, potete immaginare, ci distanziano da *quel* modo di celebrare l’Ottobre. Eppure abbiamo aderito senza problemi. Per due ragioni fondamentali. La prima, coi compagni di Esc c’è (molta) differenza ma c’è altrettanto “riconoscimento” politico. Tra compagni, insomma, ci si confronta apertamente, su tutto, nella condivisione come nello scontro dialettico. La seconda ragione fondamentale è data dalla convinzione che il marxismo ha la forza di confrontarsi con tutto il pensiero umano, non solo con chi ne condivide le premesse. Il marxismo è un pensiero della totalità: non ha paura a confrontarsi col grande pensiero borghese, così come non ha paura di discutere con forme di operaismo post-moderno. Anzi, preferiamo di gran lunga discutere con chi non la pensa come noi, piuttosto che darci ragione a vicenda in sterili dibattiti improduttivi. Il problema non era tanto, allora, “dove” e “con chi” discutere di comunismo, ma “come” essere efficaci in un contesto di reciproca diffidenza. Nel ristrettissimo spazio di dieci minuti (questo il tempo consentito ai relatori) sapersi fare ascoltare diveniva il problema centrale. Speriamo con questa relazione di esserne venuti a capo. Buona lettura].
Fra le tante sciagure connesse alla crisi economica, almeno una conseguenza positiva: dal novero delle teorie politiche comprensibili, non trovano più posto le derive culturali tipiche di certo marxismo post-moderno. La crisi ha forzatamente ricongiunto teoria e prassi, anche nel pensiero marxista. Lo scenario della politica è oggi occupato esclusivamente da soggetti in grado di produrre un discorso sul potere. Ogni teoria che non si traduca immediatamente in strumento di lotta, per affermare un ordine o per sovvertirlo, è confinata ai dipartimenti universitari ma espulsa di fatto dagli interessi materiali delle popolazioni. I comunisti oggi sono allora quei soggetti – individuali e collettivi – in grado di tenere in vita una scienza del potere sottraendola all’esclusivo monopolio delle classi dominanti. Questo il significato profondo della Rivoluzione che ci apprestiamo a celebrare in questo centenario: la conquista, per le classi subalterne, del realismo della politica contro l’idealismo dei propositi morali.
La Rivoluzione conclude, secondo il Lukacs di Storia e coscienza di classe, il cammino delle masse diseredate “dall’utopia alla conoscenza della realtà: la classe operaia non ha da realizzare alcun ideale, ma soltanto porre in libertà elementi della società nuova; dal cammino che conduce dalla classe “rispetto al capitale” alla classe “per se stessa”. E’ solamente dentro questo orizzonte che assume consistenza quella necessaria autonomia del politico che implica il realismo e la dialettica come strumenti necessari a una strategia rivoluzionaria. La politica deve intendersi, in questo senso, autonoma dalla morale ma dipendente dai processi sociali di cui è epifenomeno. Questo trentennio ci lascia, al contrario, una politica svincolata da qualsivoglia processo sociale reale, ma dipendente dalla morale e dai suoi presunti imperativi categorici.
Secondo il Gramsci delle Note sul Machiavelli, “il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. La politica è un’attività autonoma, con suoi principi e leggi diversi da quelli della morale e della religione, perché implicitamente innova la concezione della morale e della religione, cioè innova tutta la concezione del mondo”. Unico orizzonte di una politica comunista è l’efficacia degli strumenti preposti alla presa del potere. Il proletariato non può permettersi imperativi morali, non solo perché ogni politica rivoluzionaria sconvolge la morale stessa, producendone una nuova ma non determinabile aprioristicamente. Ma soprattutto perché ogni freno morale sottrae forza a quella scienza del potere che ragiona solamente in termini di utilità.
Qual è il confine, per definizione precario e aleatorio, oltre il quale i mezzi predisposti alla presa del potere corrompono politicamente i fini rivoluzionari? Quale l’equilibrio, per definizione instabile e sfuggevole, tra strategia rivoluzionaria e tattica compromissoria? Quale la differenza tra tattica e tatticismo? Non c’è una soluzione a queste domande, ma i comunisti, dal 1870 al 1989, hanno in compenso elaborato un metodo.
Sempre secondo il Lukacs di Storia e coscienza di classe, “il marxismo ortodosso non significa un’accettazione acritica dei risultati della ricerca marxiana, non significa un “atto di fede” in questa o in quella tesi di Marx, e neppure l’esegesi di un libro “sacro”. Per ciò che concerne il marxismo, l’ortodossia si riferisce esclusivamente al metodo”. Il metodo in questione è la dialettica materialista, tradotta leninianamente nell’analisi concreta della situazione concreta. I comunisti, ancora oggi, sono quegli agenti della lotta di classe che prendono atto della realtà concreta, e in base a questa informano, piegano e deformano il proprio agire tenendo fede unicamente all’obiettivo rivoluzionario: la presa del potere politico del proletariato. In funzione di ciò, non c’è morale né astrattezza dei principii, se non una morale e dei principii in divenire. Non c’è idealismo possibile, ma solo bieca materialità dei rapporti di forza e di convenienza. Solo da questa prospettiva è possibile pensare l’Ottobre, che si è determinato storicamente come continuo compromesso tra la strategia politica del partito bolscevico e la realtà materiale.
Quale il vettore organizzativo che conduce alla classe “per se stessa”? Scongiurando astratte categorizzazioni, non può darsi una forma organizzativa valida per ogni contesto. La classe per sé è però il frutto di un processo organizzativo, e non di spontanea auto-coscienza. Un processo organizzativo che sveli la relazione reciproca tra gli uomini, che è una relazione di cooperazione e non di competizione o, peggio ancora, di nemicità. Una relazione però spossessata, per ragioni determinate, dal controllo capitalistico. E’ all’interno della sua forma organizzata che il proletariato ritrova questa relazione cooperativa, ma questa tendenza organizzativa è possibile e necessaria solamente dentro le lotte economiche, non a prescindere da queste. L’organizzazione politica non è im-mediata nella contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, né calata dal di fuori di questo rapporto sociale. L’organizzazione si genera in medias res, nelle lotte e oltre le lotte.
Attraverso una metafora, potremmo dire che il partito del proletariato è efficace, cioè può lottare effettivamente per il potere, solo e unicamente quando si presenta come punto d’incontro e di sintesi tra la stalagmite delle lotte sociali dal basso e la stalattite della sintesi politica dall’alto. Quando stalagmite e stalattite s’incontrano formano una colonna, che salda i due processi garantendogli solidità. Fuori da questa dialettica si è presentato, storicamente, solo il sindacalismo, nel senso “soreliano-insurrezionale” o “riformistico-tradunionista”; oppure il settarismo politicista, ontologicamente minoritario. Ambedue le tendenze intimamente non comuniste, ma soprattutto anti-leniniste, e quindi in contraddizione con la Rivoluzione che oggi celebriamo.
In base alla necessità sempre mutevole di situare la propria prassi politica rivoluzionaria nella realtà materiale, non è possibile neanche determinare in via esclusivamente teorica la relazione tra le cosiddette “avanguardie” e i movimenti sociali, siano essi più o meno spontanei, che prendono forma nelle contraddizioni del modello di produzione capitalista. Va però segnalata l’antinomia tra la militanza, che informa i caratteri della modernità politica, e l’attivismo, che al contrario sublima la partecipazione politica post-moderna. I termini non sono sinonimi. La militanza, seguendo il ragionamento di Gigi Roggero nel suo Elogio della militanza, impone uno stile di vita fondato sul sacrificio e la disciplina: il militante mette in gioco la propria vita, senza gioia ma con dedizione subordinata necessariamente agli interessi del soggetto collettivo a cui appartiene; l’attivista, al contrario, soddisfa nella partecipazione il proprio desiderio di socialità. Il militante è un soggetto conflittuale che vive fuori dal proprio tempo la sua coscienza infelice, che genera disagio e quindi disponibilità alla lotta. L’attivista vive al contrario pienamente dentro lo zeitgeist, nel senso soddisfatto o rassegnato, e quindi conservatore o nichilista, ma mai compiutamente rivoluzionario. Non può darsi, in questo senso, organizzazione del proletariato senza militanti della lotta di classe. Ma questi, lungi dal fabbricarsi in laboratorio, si danno solamente dentro le lotte di classe, che a loro volta esistono in quanto esprimono (e rappresentano, se intendiamo il termine non nel mero senso elettoralistico) il senso delle lotte economiche.
Vorremmo concludere con un esempio attuale: la vicenda greca, culminata nel referendum del luglio 2015, ci lascia un insegnamento decisivo. L’elevata conflittualità sociale ha trovato un suo sbocco effettivo solamente nel momento in cui un soggetto organizzato, per quanto incompiuto ed eterodosso, ha tradotto in forma politica uno scontro sociale di vaste proporzioni. Con una leggera forzatura, potremmo dire che dal 1945 ad oggi mai si sono create, in un paese Nato dell’Europa occidentale, condizioni tanto favorevoli alla rottura politica con lo stato di cose presenti. La rottura si era imposta nel carnet delle scelte politiche possibili concretamente, non idealmente. In tal senso, Syriza ha agito da soggetto comunista meglio dei partiti alla sua sinistra arroccati nelle loro posizioni di principio.
Ma Syriza non era, compiutamente, un partito comunista, e la finestra di opportunità si è rapidamente chiusa portando con sé la pacificazione di quell’esperienza e la svendita del paese ai capitali stranieri. La rivoluzioni a metà si confermano le peggiori soluzioni politiche per il proletariato. Senza soggetto politico le formidabili lotte del proletariato greco sarebbero ripiegate su se stesse lasciando dietro di sé la testimonianza di una lotta, utile a scaldare i cuori dei militanti ma inutile alla presa del potere. L’incompiutezza politica di Syriza ha però mancato l’appuntamento con la storia. Per i comunisti, il nodo politico dei nostri tempi sta tutto nella giusta interpretazione di fenomeni simili.