L’uomo nuovo del capitalismo ordoliberale
In cosa consiste la sostanza che sta alla base del capitalismo della crisi? Frotte di scienziati sociali – economisti, storici, sociologi, filosofi – provano da anni a rispondere a questa domanda, senza per questo riuscire a convincere nelle risposte. Certo, la caduta tendenziale del saggio di profitto è ancora, almeno ci sembra, la spiegazione che trova le maggiori verifiche empiriche, sul piano economico. Ma non basta. Non è mai stata pensata come spiegazione onnicomprensiva delle trasformazioni del capitale, e per tale ragione non può essere utilizzata come atto di fede nelle riflessioni sul capitalismo della crisi del XXI secolo. Pietro Ichino, sul Corriere del 17 novembre, ci sembra far luce (involontariamente) su di un dato centrale del modello produttivo liberista, in grado di aggiungere un pezzo alla risposta sul perché il capitalismo è in crisi irreversibile. Leggiamo: “nel ’69…fatta 100 la produttività standard di un operaio-tipo, quello che in concreto aveva una produttività inferiore si attestava intorno a quota 90, raramente si arrivava al limite minimo di 80, mentre quello più produttivo poteva arrivare a 130, 140, raramente a 150. In altre parole, il rapporto tra il più e il meno produttivo non arrivava neppure a 2[…]Oggi la situazione è totalmente cambiata. Un’azienda che intenda assumere un addetto a mansioni anche di livello basso…può trovarsi di fronte a risultati che indicano differenze di produttività da 100 a 10.000[…]Se poi dai livelli esecutivi più bassi si passa a quelli di concetto, o addirittura a quelli del lavoro creativo, la gamma delle produttività individuali, risultanti in parte dalle capacità individuali di avvalersi dei nuovi strumenti, si allarga a dismisura[…]In altre parole, per semplificare al massimo: tra chi sa soltanto confezionare o recapitare una pizza e chi sa individuare i suoi potenziali consumatori e gli ingredienti della stessa pizza a loro più graditi, come raccoglierne in modo più efficiente le ordinazioni e i pagamenti e come organizzare le consegne, si è determinata una distanza molto maggiore nel mercato del lavoro rispetto a quella che separava cinquant’anni fa, o anche solo venticinque, il pizzaiolo o il fattorino più produttivo da quello più imbranato”.
Non sembra, ma questa dinamica spiega (almeno in parte) la crisi del capitalismo attuale. Qualche decennio fa, per una serie di fattori oggettivi (il modo in cui era organizzata la produzione; lo sviluppo storico delle forze produttive) e soggettivi (la resistenza operaia ai processi di segmentazione e annichilimento; la forza delle organizzazioni e dei partiti operai), all’interno dello stesso processo produttivo – ad esempio: dentro una fabbrica, ma anche dentro un ufficio – la socializzazione delle informazioni e delle competenze era vertiginosamente più elevata, livellando le condizioni di produzione e i rapporti di lavoro. L’operaio, o l’impiegato, erano in grado di possedere (a grandi linee) tutti gli strumenti e le informazioni di cui si componeva l’organizzazione della produzione. Possedevano cioè una scienza, composta da un misto di esperienze pregresse, esperienze dirette nei luoghi di lavoro, cultura tecnica e politica, emancipazione data dai livelli di conflittualità, eccetera. Inoltre l’impresa, sia pubblica che privata, investiva (perché obbligata dai rapporti politici, non per bontà) nella formazione delle professionalità, riducendo drasticamente le differenze tra l’operaio o l’impiegato più produttivo e quello meno.
Oggi questo modello è stato definitivamente(?) disarticolato. Oggi l’operaio o l’impiegato inseriti nei loro particolari momenti della produzione (materiale o immateriale), conoscono solo il proprio specifico aspetto, ignorando non solo ciò che succede sotto e sopra di loro, ma soprattutto ignorando il modello produttivo complessivo nel quale sono inseriti. Se fino a trent’anni fa un operaio della Fiat avrebbe saputo, a grandi linee, partecipare a tutti i momenti della costruzione di un automobile, riuscendo potenzialmente a costruirsela da solo, oggi l’operaio è super-specializzato nella sua particolare mansione, ma difficilmente padroneggia il processo produttivo nel suo insieme. E non stiamo parlando dell’operaio professionale degli anni Trenta o Cinquanta, ma anche dall’operaio massa degli anni Sessanta, ignorante dei processi produttivi nei quali era immerso ma rapidamente ammaestrato del suo ruolo nella produzione (e nel mondo).
L’impresa, sia pubblica che privata, non investe più nella formazione delle competenze della sua forza lavoro anzi, al contrario, si appropria di competenze auto-prodotte privatamente e individualmente per poi fagocitarle nei processi produttivi. Il fenomeno degli youtubers, dei talent, dei freelancers, delle finte partite iva, non sono altro che pezzi di questo discorso per cui la professionalità non è più il risultato di un investimento economico sul lavoratore, ma la qualità che si deve possedere per farsi assumere e sussumere dal capitale, sia pubblico che privato. Dal capitalismo della crisi è scomparso il concetto del rischio.
Tutto questo crea un mercato del lavoro iper-segmentato, atomizzato, parcellizzato, che disattiva ogni possibile solidarietà tra lavoratori dentro uno stesso processo produttivo, sostituito dalla competizione tra lavoratori che si auto-percepiscono come “imprese individuali” in lotta per “segmenti di mercato” che poi altro non sarebbero che il riconoscimento di queste professionalità da parte dell’impresa che dovrebbe procedere all’assunzione. Oltretutto, questa dinamica contribuisce alla strutturazione di una società individualizzata iper-conflittuale orizzontalmente (tra lavoratori investiti del ruolo di competitors) ma pacificata verticalmente (nel rapporto tra lavoratori e datori di lavoro), dove non è possibile alcuna istanza comune date le caratteristiche della società-mercato che impone vincoli di ostilità e competizione tra lavoratori stessi.
Ma questo vasto processo di ri-organizzazione dei rapporti produttivi influisce anche sulla tendenza del profitto a diminuire. Infatti per Marx, sintetizziamo volgarmente, l’aumento del capitale costante (le macchine) accresce la produttività ma diminuisce il profitto, perché l’unico strumento di profitto nelle mani del capitale è costituito dal lavoro umano. Ma qual è la differenza sostanziale tra la macchina e l’uomo nel processo produttivo? Che la macchina sa fare solo ciò per cui è programmata: l’impresa può aumentarne il ritmo di produzione, ma non la varietà di mansioni differenti o alternative programmate. L’uomo, nella sua infinita adattabilità, può predisporsi a ritmi, mansioni e specializzazioni differenti, molteplici, alternative. Se riduco le infinite potenzialità della natura umana al ruolo di robot umanizzato che dis-conosce ogni parte del processo produttivo e la stessa produzione nel suo insieme, equiparo l’uomo alla macchina, aumentandone a dismisura la produttività (come è avvenuto in questi anni), ma riducendo costantemente le possibilità di profitto per le imprese pubbliche e private.
Su di un piano più filosofico e culturale di lungo periodo, oltretutto, questa tendenza aliena ulteriormente la specie umana da se stessa. L’”uomo di ieri” – per usare un eufemismo – sapeva fare un po’ di tutto. Possedeva cioè competenze variegate ma utili alla difesa della sua autonomia e alla sua libertà da vincoli esterni. L’”uomo di oggi” non sa fare tendenzialmente niente. E’ stato progressivamente espropriato della capacità di fare fronte alla vita se non delegando al mercato la soluzione delle sue mille problematicità. Questa delega è una spoliazione della propria natura, che non viene semplicemente dispersa ma rimane intrappolata nelle logiche del mercato, al quale necessariamente affidarsi se si vuole cucinare un piatto di pasta, sostituire il sifone del lavandino, riparare le libreria, cambiare l’olio alla macchina, e altri infiniti eccetera. L’iper-specializzazione post-moderna fondata sul mito della tecnica opposta alla coscienza critica del sapere umanistico altro non è che la particolare concretizzazione universitaria di questo processo.
Ecco perché Ichino, nella sua ingenuità ma al tempo stesso nella sua consapevolezza accumulata in anni di studio del mondo del lavoro, individua nell’estrema frammentazione delle capacità produttive della forza lavoro un problema da affrontare. Riducendo i diritti dei lavoratori, dal suo punto di vista. Ma certo non stiamo qui a chiedere a Ichino risposte ai problemi che gente come lui ha contribuito a creare.