Elezioni USA: la mitologia della mitologia.
In questi primi giorni della presidenza Trump stiamo assistendo ad un fenomeno alquanto singolare: mentre i media mainstream, superato lo stordimento e la confusione per la vittoria “a sorpresa” del tycoon newyorkese e venuto meno il loro compito di influencer pro Clinton, si interrogano quasi quotidianamente sul significato sociale e politico della tornata elettorale statunitense, in molti, a sinistra, sembrerebbero provare a ricondurre tutto dentro uno schema interpretativo convenzionale: i conservatori a destra e i progressisti a sinistra, i ricchi da una parte e i poveri dall’altra, ecc. ecc. Una lettura consolatoria che sottovaluta gli elementi (anche drammatici) di novità delle presidenziali statunitensi con cui, gioco forza, saremo chiamati a confrontarci anche alle nostre latitudini. Uno degli argomenti cardine di questa sorta di esorcismo collettivo è rappresentato dal voto a sostegno di Trump della working class e più in generale dei ceti impoveriti dalla crisi. Si tratterebbe, è questa la tesi, di una vera e propria narrazione mitologica che si autoalimenta di luoghi comuni e, a dimostrazione di questa teoria, vengono presentati i dati sulle percentuali di voto in riferimento alla fasce di reddito. Ora, prima di procedere, ci occorre fare due precisazioni. La prima, anche banale, è che fasce di reddito e classi sociali sono due concetti diversi che solo in parte si sovrappongono. Un salariato che vive esclusivamente della vendita della propria forza lavoro può tranquillamente appartenere ad una fascia di reddito superiore rispetto ad un piccolo proprietario di casa che gode della rendita dei propri immobili. La seconda precisazione, anche questa abbastanza ovvia, è che tanto il Partito Democratico quanto quello Repubblicano sono forze politiche interclassiste, per cui non esistono blocchi socialmente omogenei politicamente orientati, ma come accade anche da noi tutti votano tutti. Ciò che è importante cogliere e interpretare è dunque la tendenza, e su questo, almeno stando ai dati sui flussi elettorali elaborati dall’Edison Research per il National Election Pool, sembra esserci davvero poco di mitologico. Se proprio vogliamo rifarci alle fasce di reddito nelle tabelle che riportiamo qui sotto, riprese dal NYT, il dato che ci sembra particolarmente significativo è quello sull’ultima colonna a destra e che rappresenta il confronto con le precedenti elezioni.
Per cui se è vero che gli elettori con un reddito inferiore ai 50mila dollari annui si sono espressi in maggioranza per la Clinton, è anche vero che solo quattro anni fa il divario Obama-Romney era stato ben più ampio (60-38); e se il voto repubblicano cresce di 6 punti per la fascia di reddito tra i 30mila e i 50mila dollari, l’aumento per la fascia inferiore ai 30mila è di ben 16 punti. Per contro il dato forse più significativo, e che invitiamo ad osservare attentamente, è rappresentato però dalle fasce di reddito oltre i 100mila dollari annui. Nel 2012 il candidato repubblicano aveva conquistato facilmente questa fascia di elettori con un distacco di 10 punti (54-44) mentre ora il divario si è ridotto ad un solo punto (48-47), segno che il sostegno ai democratici in questa fascia di reddito è cresciuto di nove punti. Ci sembra evidente come la lettura binaria “ricchi vs poveri” risulti dunque davvero poco utile a comprendere il fenomeno Trump.
L’altro dato significativo riguarda poi il voto degli operai sindacalizzati, si tratta di un elettorato tradizionalmente democratico (tutt’altro che monocromatico) espressione di organizzazioni che da sempre sostengono economicamente (e cospicuamente) i candidati alla presidenza del Partito Democratico. Anche in questo caso il grafico ripreso dal WP, (letto con le dovute cautele del caso vista la non coincidenza totale tra union households e unions member) è abbastanza esplicativo, con un vantaggio che a livello nazionale si è ridotto a soli 8 punti dai 18 di soli 4 anni fa. Un risultato talmente negativo da aver determinato un forte “dibattito” interno ai vertici delle maggiori organizzazioni sindacali.
Ancora più degno di nota è però quello che è accaduto negli stati della cosiddetta “cintura della ruggine”, quella Rustbelt tradizionalmente “proletaria” e democratica ma che nel corso degli anni è stata investita da una processo di deindustrializzazione che l’ha resa particolarmente sensibile alle promesse trumpiane di rispristino della vecchia economia industriale basata sul protezionismo e la rinegoziazione dei trattati internazionali.
Appare chiaro dunque come il sostegno “operaio” a Trump rappresenti tutt’altro che una narrazione mitologica e che, anzi, alimentare questa “mitologia della mitologia” non faccia altro che rendere ancora più difficile comprendere le ragioni di fondo della vittoria del candidato “impresentabile” contro la candidata dell’establishment. Così come non lo consente schiacchiare tutto il ragionamento esclusivanente sul sessismo o il razzismo, elementi che rappresentano una componente strutturale della retorica trumpiana, ma che da soli non spiegano come sia stato possibile che un miliardario populista e mal pettinato sia riuscito a farsi espressione politica di un blocco sociale che oggettivamente ambisce a contrapporsi ai processi di globalizzazione. Il prossimo anno si voterà in Francia e probabilmente anche in Italia (sempre che il 4 dicembre le cose vadano come speriamo) e non serve un particolare acume politico per capire come questi ragionamenti diverranno di stringente attualità anche da noi. Poi hai voglia a dire che gli operai francesi sono stronzi, xenofobi e razzisti perchè votano la Le Pen…