Olimpiadi geopolitiche
Ogni grande evento è un arma politica nelle mani di chi lo organizza. Premi Nobel, premi Oscar, mondiali di calcio, expo, saloni del libro, fiere di questo o quel campo del sapere, eccetera, contengono molti significati sovrapposti. Sono eventi polisemici, difficili da catalogare (e dunque da condannare o, al contrario, da esaltare) in blocco, senza considerare l’evento nel suo complesso e nella sua complessità. Alcuni sono eventi necessari sebbene fagocitati da logiche capitalistiche; altri hanno perso nel corso del tempo il loro significato (o funzione) originario, rivestendo nella post-modernità il ruolo di contenitori del superfluo o dell’inutile; altri sono invece baracconi devianti. Le manifestazioni sportive hanno da sempre una funzione legittimante il potere costituito, ma allo stesso tempo rivestono una funzione necessaria dello spirito sociale dell’uomo che le ha rese antiche quanto l’uomo stesso, motivo per cui è altresì inutile marchiarle come “prodotto del capitalismo”. Le Olimpiadi, ad esempio, non sono un prodotto del capitalismo, ma sono capitalisticamente organizzate più o meno da quando sono state reintrodotte nella modernità. Eppure una delle più grandi – la più grande, nel rapporto tra numero dei suoi abitanti, medaglie vinte e Pil pro-capite – nazioni olimpiche, Cuba, non può essere certo ridotta a riflesso sportivo del capitalismo. Anche a Cuba, figuriamoci, lo sport ha valore legittimante, ma in funzione socialista, dunque progressiva. Perché mai d’altronde lo sport non dovrebbe legittimare, cioè cementare il rapporto tra popolazione e potere politico, se questo è espressione di un potere di classe? Ben venga allora ogni utilizzo dello sport in questo senso, piantandola una volta per tutte con le retoriche buoniste dello sport come esclusivo momento ludico-ricreativo. Lo sport è competizione, o meglio cooperazione nella competizione. Cuba è un sistema che funziona anche perché i suoi atleti vincono, non vanno a fare passerelle pauperistiche nei palcoscenici del turbo-capitalismo post-moderno.
Detto questo, due piccoli indizi di quanto possa essere potente il palcoscenico olimpico per veicolare messaggi (e valori) politici sono sotto gli occhi di tutti in questi giorni di esaltazione (e frustrazione) olimpica. Il primo, il boicottaggio generalizzato contro la Russia a cui partecipano pateticamente gli atleti dalle nazionalità meno credibili (Stati uniti e Italia, ad esempio, fra le nazioni più dopate della storia). Ogni medaglia persa, ogni oro sfumato, ogni qualificazione mancata, e giù a sparare contro gli atleti russi che starebbero barando in quanto “nazione dopata”. Prima dello scandalo del doping russo emerso nel 2015 (dove però la Wada – l’agenzia antidoping mondiale – aveva monitorato e condannato anche altri 12 paesi), gli Usa erano la nazione col maggior numero di atleti dopati alle Olimpiadi. Eppure a nessuno atleta, figuriamoci gli italiani, è mai venuto in mente di delegittimare gli Usa come partecipanti alla competizione (purtroppo, aggiungiamo noi). Da qualche giorno invece ad ogni figura di merda fatta dall’Italia in queste Olimpiadi (a proposito, siamo in corsa per battere il record di peggiore olimpiade di sempre, grazie alla gestione mafiosa dei nostri settori sportivi, ai tagli radicali fatti dai vari governi verso tutto lo sport agonistico, per non dire di quello popolare, grazie alle scelte politiche del Coni, alla poca lungimiranza del settore tecnico, eccetera eccetera: andiamo avanti sperando nello stellone, consona strategia italica), dicevamo, ad ogni eliminazione o delusione segue la dichiarazione contro la Russia, colpevole di partecipare ai giochi e di sottrarre medaglie agli atleti “sani”. Ben venga l’esclusione degli atleti russi se effettivamente colpevoli di doping, sia chiaro, ma al tempo stesso l’utilizzo dei due pesi e delle due misure ha un chiaro risvolto politico. E ha un po’ rotto il cazzo, come direbbe Bizio Capoccetti. Gli Usa avrebbero dovuto essere banditi da ogni Olimpiade s’è per questo, eppure fatichiamo a leggere dichiarazioni in tal senso. Francia e Spagna sono paesi posti sotto osservazione per infrazioni sistematiche al sistema anti-doping: qualcuno ne ha sentito parlare? Qualcuno sta dubitando sui media della loro legittimità a gareggiare? Qualche atleta si è risentito di competere contro francesi o spagnoli? Non ci risulta. La demonizzazione del paese avviene attraverso le dichiarazioni di sportivi bolliti che pensano così di nascondere le proprie attuali miserie atletiche (perché pensate che stiamo parlando di Clemente Russo?).
Eppure, ad un livello più inferiore ma non meno deprimente, c’è qualcosa che batte anche il doping politico contro la Russia. Stiamo parlando cioè della “squadra olimpica dei rifugiati”, la fantasiosa nazionale dei senza Stato, dei migranti salvati dalla bontà occidentale, ai quali viene concessa l’occasione della vita, il palcoscenico per concretizzare l’american dream, l’illusione di un’impossibile parità di condizioni e di trattamento. Dopo aver distrutto gli Stati d’appartenenza, l’Occidente – attraverso la sua mannaia sportiva del Cio – consente anche ai “pezzenti” un posto in paradiso. Non sappiamo chi sia tal Andrea Coccia, ma questo articolo riassume brevemente l’operazione culturale neocoloniale e visceralmente razzista che si cela dietro l’artificiosa squadra creata dal Comitato olimpico. Anche questa, un’operazione culturale magari secondaria ma indicativa, che svela l’approccio del mondo dei ricchi verso quello dei poveri, che elimina le origini di quella povertà ma consente agli assoggettati l’illusione di far parte di quello stesso mondo che li ha resi poveri. Capolavoro.