Tra Lenin e Fanon. Per una “teoria critica” del presente.
di Giulia Bausano
L’occasione della ripubblicazione di una raccolta antologica di alcuni scritti della RAF[1] è stato il quarantennale dall’assassinio di Ulrike Meinhof, uccisa nel carcere di Stammhein il 9 maggio 1976. Ma l’intento di questo lavoro non è né celebrativo, né esclusivamente memorialistico, ritenendo che la memoria non possa che consistere in una ripresa in mano, da parte dell’odierna generazione di militanti rivoluzionari, di quanto dell’esperienza RAF sembra avere ancora qualcosa di importante da dire nello scenario attuale. Pertanto con l’introduzione ai testi abbiamo provato ad individuare e riflettere su alcune ipotesi della RAF che, a nostro avviso, hanno trovato conferma nella realtà in cui viviamo: cioè l’odierna fase imperialista del capitalismo globale.
Sintetizzando, le intuizioni teoriche e pratiche della RAF, che ci sembrano aver trovato un riscontro fecondo nella cornice storica attuale, sono:
– l’eclissi della dimensione dello stato nazione e l’internazionalizzazione di fatto di ogni dimensione politica
– lo sviluppo della tendenza alla guerra come elemento centrale dell’attuale fase imperialista
– Le trasformazioni che hanno interessato la composizione di classe dentro il cuore del sistema imperialista che tendono a confermare come l’attenzione, e conseguente centralità, posta dalla RAF per le “masse senza volto” cogliesse appieno ciò che il destino riservava alle classi sociali subalterne. Oggi, ciò che negli anni 70 del Novecento poteva apparire ancora come un’eccezione (causando spesso alla Raf accuse di deliberato minoritarismo o estremismo) sembra diventare, attraverso un processo a cascata, la regola.
L’ultima parte dell’introduzione, soffermandosi su un aspetto metodologico della teoria della RAF che oggi sembra offrire suggerimenti politici interessanti, rappresenta il tentativo di proseguire l’elaborazione politica che abbiamo cercato di portare avanti in questi anni[2], approfondendo l’analisi del pensiero strategico leniniano come strumento politico fondamentale per le avanguardie odierne, l’analisi delle trasformazioni della forma stato legate alle trasformazioni della forma guerra, e di quelle subite dalla composizione di classe e la riflessione sul contestuale necessario ripensamento della teoria comunista dell’organizzazione politica. Il capitolo finale dell’introduzione è intitolato “Lenin e Fanon” : in esso viene posta come centrale una possibile intersezione tra il pensiero strategico leniniano e le analisi sul colonialismo fatte da Frantz Fanon, e questo proprio a partire da alcune intuizioni della RAF che sembrano confermate dallo scenario attuale del capitalismo globale, caratterizzato dal venir meno di confini rigidi tra Primo e Terzo mondo e dalla ridefinizione di un modello di tipo neocoloniale anche all’interno delle metropoli occidentali. Abbiamo definito con il termine di modello neocoloniale la trasformazione statuale che la fase imperialista del capitalismo globale, a nostro avviso, sta estendendo all’intero globo, eliminando i confini tradizionali tra paesi imperialisti, il cosiddetto primo mondo, e i paesi colonizzati, il cosiddetto terzo mondo. Tale modello politico è il frutto delle trasformazioni economiche definite come fase globale del capitalismo:
Nel grande gioco del capitalismo globale una delle poste in palio decisive è la continua produzione di produttori a basso costo posti nella condizione di non nuocere, che per il management del capitalismo globale molto prosaicamente significa scongiurare il manifestarsi di qualunque forma di resistenza organizzata da parte dei subordinati. È all’interno di tale obiettivo strategico che, allora, diventa possibile prendere in considerazione il discorso sul “modello coloniale”. Si tratta però, oltre il paradosso, di un colonialismo senza colonie esterne e in fondo de – territorializzato ed è in questa prospettiva che le periferie delle metropoli globali diventano una delle molte “colonie interne” di cui il capitalismo globale non può fare a meno. È all’interno di questo scenario globale che episodi come la rivolta della banlieue permettono di rimettere a confronto gli ordini discorsivi che, sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, avevano iniziato a prodursi. (…)
In questo nuovo paradigma è possibile immaginare la popolazione divisa all’interno di due rette, una che si muove in orizzontale e l’altra che corre in verticale, producendo un modello sociale che sembra ricalcare appieno per un verso le intuizioni di Foucault, le analisi della RAF dall’altro. Sull’asse orizzontale sono allocate quelle quote di popolazione il cui futuro oscilla tra lavori saltuari, precari e flessibili di basso profilo o le continue incursioni nell’ambito delle economie informali e/o illegali. Passaggi determinati da semplici contingenze sia “strutturali” (maggiore o minore richiesta di lavori di basso profilo), sia “individuali” (opportunità offerte occasionalmente da uno dei tanti segmenti delle economie informali). Costoro, nella migliore delle ipotesi, possono aspirare a una “dignitosa” esistenza al servizio di un qualche privato o pubblico, singolo o collettivo, padrone “bianco” e qualora siano servi mesti e fedeli non andranno incontro a troppe disavventure ma, come nella Londra vittoriana, potranno sempre contare sulla benevolenza del padrone che non gli rifiuterà i suoi abiti, smessi ma ancora in buon stato. Diverse le vite e le opportunità per coloro le cui esistenze sono inserite sull’asse che corre in verticale, il mondo dei “bianchi”. Complesso non omogeneo, dove le posizioni di rendita, di prestigio e potere sono oggetto di una stratificazione sociale ossessiva e la lotta per l’affermazione individuale feroce, priva di scrupoli e incessante ma, ed è questo il nocciolo della questione, con qualcosa che le assimila e le rende affini: le opportunità a portata di mano sono, se non infinite, numerose e pur sempre all’interno di uno “stile di vita” sociale inclusivo e rispettabile. Certo, in qualche modo, flessibilità, precarietà e “assenza di certezze” sono lo sfondo anche delle vite di molti “bianchi” ma, se per i “neri” la società dell’incertezza è solo un incubo, per i bianchi” sembra essere piuttosto un’avventura dove il saldo tra rischi e benefici sono tutti a vantaggio degli ultimi. Per i “bianchi”, nel peggiore dei casi, il tutto si risolve in salti mortali virtuali e simbolici e per di più con robuste reti di protezione sullo sfondo; per i “neri” i salti sono ugualmente mortali ma drasticamente reali, materiali e senza alcuna rete protettiva. Lo scenario oggettivamente tende a rendere i due mondi a tal punto distanti e incommensurabili che il paesaggio delle metropoli globali, più che a scenari iper – o post – moderni sembra rimandare al remake, ben riuscito, dei “mondi coloniali”.
Pertanto per un verso Lenin, per l’altro Fanon, i più acuti interpreti dell’imperialismo e del colonialismo alla luce del materialismo storico dialettico, sembrano poter fornire degli strumenti utili ad approntare un pensiero strategico all’altezza del presente. Questa ipotesi, circa la fecondità del nesso tra la teoria di Lenin e quella di Fanon, rende necessario affrontare una questione centrale. Infatti se è vero che la condizione di “masse senza volto”, si sta estendendo oltre la cosiddetta linea del colore a tutti i subalterni anche nelle metropoli occidentali, ciò comporta un fatto in un certo senso decisivo. Tale condizione infatti rimanda ad un rapporto tra le classi segnato non più da una conflittualità basata sul reciproco riconoscimento, bensì su una radicale alterità. Con l’espressione “masse senza volto”, si intende indicare la condizione di esclusione, di privazione di linguaggio politico e quindi di legittimità politica che le classi dominanti riservano a quote sempre più ampie di subalterni, anche all’interno dei territori metropolitani occidentali. Questo vuol dire che oggi, se si condivide questa prospettiva analitica, è da considerarsi estinto il rapporto dialettico fondato sul mutuo riconoscimento che è riassumibile nella celebre espressione di Marx per cui “tra pari diritti, vince la forza”. Questa espressione di Marx è contenuta nel passo del Capitale dove viene esposta in maniera chiarissima la trasformazione storico materialistica della dialettica servo – padrone hegeliana, precisamente nel Capitolo ottavo del Libro Primo dedicato all’analisi della giornata lavorativa.
Scrive Marx:
“Si vede allora che , eccetto limiti del tutto elastici, dalla natura dello scambio delle merci preso in se stesso non risulta alcun limite alla giornata lavorativa, perciò nessun limite al pluslavoro. Il capitalista, tentando di fare più lunga possibile la giornata lavorativa e tentando di farne due da una quando gli sia possibile, mette avanti il suo diritto di acquirente. D’altro lato la particolare natura della merce venduta comporta un limite nel suo consumo da parte dell’acquirente, mentre l’operaio, nel tentativo di limitare la giornata lavorativa a una certa normale grandezza, mette avanti il proprio diritto di venditore. Perciò qui si verifica una antinomia, diritto contro diritto, ambedue ugualmente suggellati dalla legge dello scambio delle merci. Tra uguali diritti decide la forza. E così nella storia della produzione capitalistica la regolazione della giornata lavorativa appare come lotta per i limiti della giornata lavorativa, lotta tra il capitalista in generale, ossia la classe dei capitalisti, e l’operaio in generale, ossia la classe operaia.”
In questo passo è condensata la forma generale del conflitto tra Capitale e Lavoro dentro la fase di consolidamento del capitalismo industriale alla metà dell’Ottocento. In questa configurazione vi sono evidentemente due poli legati da una tensione: gli uguali diritti, e la forza. E proprio sulla lettura e l’interpretazione di questa tensione sono state costruite le diverse posizioni politiche nel movimento operaio e socialista e le revisioni della teoria marxiana. Al di là dei presupposti e dei loro esiti, è importante notare come tutte le riletture e le interpretazione della relazione tra Capitale e Lavoro pensata da Marx, prodottesi nel movimento operaio e socialista, partano da un’analisi della forma stato in cui si trovano ad operare, nonché dei rapporti di forza esistenti tra i diversi stati.
Non a caso nel dibattito interno alla socialdemocrazia tedesca di fine Ottocento, sia il riformismo di Kautsky, sia il revisionismo di Bernstein prendono le mosse da una riconsiderazione del rapporto antinomico tra Capitale e Lavoro. Il centrismo di Kautsky, che guida la socialdemocrazia tedesca tra gli anni ’70 e ’80 del XIX secolo, interpreta in maniera deterministica la dialettica storico materialistica, di fatto arrivando a preconizzare la fine del capitalismo e l’avvento del socialismo come l’esito implicito nello stesso sistema capitalistico, leggendo cioè la storia come un processo evolutivo di tipo lineare. La crescita numerica e qualitativa del movimento operaio in Germania in quegli anni, insieme alla prima grave crisi del capitalismo, accrescono queste convinzioni. Conseguenza pratica di questa posizione è che la socialdemocrazia non debba organizzare la rivoluzione, ma organizzarsi per la rivoluzione, quest’ultima intesa come un esito oggettivo e non il prodotto dell’agire di una soggettività. Questo significa di fatto che la socialdemocrazia, secondo Kautsky, deve solo attrezzarsi a spingere in avanti le riforme che porteranno alla realizzazione di questo passaggio: quindi l’affermazione marxiana “tra pari diritti decide la forza”, è interpretata facendo della forza un attributo del diritto: la forza diventa cioè forza legale con cui il Capitale e il Lavoro si battono all’interno dei confini dello stato, che non è più apparato di dominio delle classi dominanti, ma campo di battaglia neutro in cui si gioca la partita.
Bernstein, invece, costruisce il suo revisionismo negli anni ’90, in un momento in cui la crisi capitalistica iniziata nel 1873 sembra essersi risolta, grazie alla capacità del Capitalismo di ristrutturarsi, in questo caso attraverso la creazione dei monopoli e l’inaugurazione della sua fase compiutamente imperialista. E Bernstein – contestando la vulgata messianica che si sarebbe impadronita del movimento operaio condannandolo ad una vuota fraseologia rivoluzionaria, peraltro smentita dal non essere seguita la rivoluzione alla crisi – arriva a negare la rivoluzione come fine stesso dei movimenti socialisti, riducendo il marxismo ad un semplice criterio di interpretazione storica. Pertanto per il revisionista Bernstein, lo sviluppo del capitalismo contiene in se stesso il suo superamento, non in senso rivoluzionario, ma progressista: lo sviluppo dell’uguaglianza politica, attraverso il suffragio universale e la democrazia di massa, avrebbe riassorbito progressivamente le disuguaglianze economiche e di classe. Compito della socialdemocrazia era dunque quello di favorire il processo democratico, puntando sulla propria crescita parlamentare. Bernstein identifica dunque la forza in grado di decidere tra i pari diritti, con lo stesso processo storico, con il quale, di fatto, la forma dello stato arriva a coincidere completamente. Detto per inciso, non è un caso che colui che intende depurare il marxismo di quel carattere dialettico che lo renderebbe dogmatico in quanto inficiato da un apriorismo teorico di matrice hegeliana, arriva ad una forma di giustificazionismo storico non molto diverso da quello della destra hegeliana.
L’ipotesi leninista, si costruirà invece sull’analisi concreta della nuova fase imperialista del capitalismo, compresa come inevitabilmente destinata a produrre la guerra e quindi sulla possibilità della rottura rivoluzionaria, attraverso l’uso della forza, che proprio dentro la guerra si renderà possibile: una rottura resa possibile organizzando quella parte di classe operaia che, in virtù dell’oggettiva postazione occupata nel processo produttivo, non risulta essere catturata dal consenso verso le proprie classi dominanti. In Lenin quindi la forza torna ad essere un elemento autonomo, e l’antinomia tra i pari diritti che vedono contrapporsi il Capitale e il Lavoro, viene letta nella sua forma radicalmente dialettica, cioè situata all’interno della situazione storica concreta delle potenze imperialiste alle prese con il Primo conflitto interimperialistico mondiale.
Gramsci, leggerà la rottura della macchina statuale prodottasi nell’impero zarista con la Rivoluzione d’ottobre come un evento non riproducibile nei Paesi a capitalismo “più avanzato”, dove “gli apparati egemonici dominanti sono troppo forti per essere abbattuti con una guerra di movimento” [Quaderni 6,138].
E’ interessante dedicare un attimo di attenzione al concetto di egemonia gramsciano e al suo legame molto stretto con l’analisi di quel fenomeno che si produce, dall’inizio del XX secolo, nelle nazioni europee governate da sistemi liberali: ossia la crisi del liberalismo, determinata dall’avvento delle società di massa.
Gramsci, in un paragrafo dei Quaderni, intitolato Organizzazione delle società nazionali, scrive:
“Ho notato altra volta che in una determinata società nessuno è disorganizzato e senza partito, purché si intendano organizzazione e partito in senso largo e non formale. In questa molteplicità di società particolari, di carattere duplice, naturale e contrattuale o volontario, una o più prevalgono relativamente o assolutamente, costituendo l’apparato egemonico di un gruppo sociale sul resto della popolazione (o società civile), base dello Stato inteso strettamente come apparato governativo‑coercitivo. Avviene sempre che le singole persone appartengano a più di una società particolare e spesso a società che essenzialmente sono in contrasto fra loro. Una politica totalitaria tende appunto: 1) a ottenere che i membri di un determinato partito trovino in questo solo partito tutte le soddisfazioni che prima trovavano in una molteplicità di organizzazioni, cioè a rompere tutti i fili che legano questi membri ad organismi culturali estranei; 2) a distruggere tutte le altre organizzazioni o a incorporarle in un sistema di cui il partito sia il solo regolatore. Ciò avviene: 1) quando il partito dato è portatore di una nuova cultura e si ha una fase progressiva; 2) quando il partito dato vuole impedire che un’altra forza, portatrice di una nuova cultura, diventi essa «totalitaria»; e si ha una fase regressiva e reazionaria oggettivamente, anche se la reazione (come sempre avviene) non confessi se stessa e cerchi di sembrare essa portatrice di una nuova cultura.
La cosa da notare è che secondo Gramsci, l’avvento della società di massa, con l’inclusione delle masse nello Stato come necessità da parte del potere statuale, ossia delle classi dominanti borghesi, di catturare il consenso delle classi subalterne, a causa del nuovo ruolo produttivo di queste ultime, trasformerebbe il rapporto tra Capitale e Lavoro, condensato nell’affermazione marxiana: “tra uguali diritti, decide la forza” , attraverso un’inedita fusione tra il concetto di diritto e di forza; una fusione che Gramsci definisce con la categoria di egemonia.
L’egemonia è una categoria che porta Gramsci a rileggere anche il concetto di ideologia marxiana: l’affermazione marxiana per cui le idee dominanti sarebbero sempre le idee delle classi dominanti, viene da Gramsci trasformata e, in questo modo, lo scontro ideologico tra le classi assume una sua autonomia all’interno del conflitto di classe:
“Nello sviluppo di una classe nazionale, accanto al processo della sua formazione nel terreno economico, occorre tener conto del parallelo sviluppo nei terreni ideologico, giuridico, religioso, intellettuale, filosofico, ecc.: si deve dire anzi che non c’è sviluppo sul terreno economico, senza questi altri sviluppi paralleli. Ma ogni movimento della «tesi» porta a movimenti della «antitesi» e [quindi] a «sintesi» parziali e provvisorie.”
Bisogna sottolineare che Gramsci assume come orizzonte prioritario del suo pensiero strategico la nazione, intendendo il conflitto tra le classi primariamente in una dimensione nazionale e successivamente in una posizione internazionale. Tutto questo spazio dedicato all’analisi dell’interpretazione gramsciana degli “uguali diritti e della forza”, è dovuta al fatto che oggi molto spesso la teoria dell’egemonia è chiamata in causa come possibile paradigma di riferimento per costruire una strategia rivoluzionaria nell’attuale fase e tuttavia, proprio il tramonto definitivo dell’orizzonte storico su cui ragiona Gramsci (il paradigma dello stato che punta a includere le masse in virtù di una necessità economica), sembrerebbe escludere l’attualizzazione della teoria gramsciana nella cornice odierna .
Chiudiamo la parentesi su Gramsci, riportando un ultimo passo dai Quaderni:
“Anche la quistione della cosiddetta «rivoluzione permanente», concetto politico sorto verso il 1848, come espressione scientifica del giacobinismo in un periodo in cui non si erano ancora costituiti i grandi partiti politici e i grandi sindacati economici e che ulteriormente sarà composto e superato nel concetto di «egemonia civile». La quistione della guerra di posizione e della guerra di movimento, con la quistione dell’arditismo, in quanto connesse con la scienza politica: concetto quarantottesco della guerra di movimento in politica è appunto quello della rivoluzione permanente: la guerra di posizione, in politica, è il concetto di egemonia, che può nascere solo dopo l’avvento di certe premesse e cioè: le grandi organizzazioni popolari di tipo moderno, che rappresentano come le «trincee» e le fortificazioni permanenti della guerra di posizione”.
L’equiparazione tra grandi organizzazioni popolari di tipo moderno e le trincee, ossia la forma paradigmatica dell’organizzazione della guerra industriale all’interno dello stato nazione che in virtù di ciò è costretto a includere le masse, può spiegare meglio di tante parole in che senso la lettura gramsciana del rapporto tra Capitale e Lavoro attraverso la categoria di egemonia, al di là del giudizio politico che se ne dia rispetto agli anni ’30 del Novecento in cui è stata formulata, appaia oggi del tutto inattuale.
A questo punto, allora, è necessario provare a chiarire in che senso abbiamo più volte affermato che il paradigma di mutuo riconoscimento tra Capitale e Lavoro nell’attuale fase imperialista del capitalismo globale sembri del tutto venuto meno. Abbiamo scritto che il paradigma neocoloniale sembra definire un mondo dove a farla da padrone è l’alterità radicale tra classi dominanti e subalterni; dove tra le classi dominanti e masse subalterne non esiste più alcuna reciprocità, nessun riconoscimento. Questo significa che oggi saremmo di fronte alla riproposizione in una nuova veste ed estesa progressivamente a un sempre maggior numero di subalterni di quel modello coloniale che presupponeva la svalutazione e la negazione dello status di cittadini dotati di linguaggio ai colonizzati. Una delle dimostrazioni più palesi ne è la fine del modello del Welfare State. Il modello statuale di tipo nuovo che caratterizzerebbe l’attuale fase imperialista lo abbiamo definito attraverso il paradigma dell’esclusione sociale e della marginalizzazione, dove l’escluso e il marginale non sono più come nell’epoca degli albori del capitalismo e poi della sua prima fase di sviluppo imperialistico il residuo di una società ormai tramontata, bensì rappresentano il tipo di forza lavoro richiesto dall’attuale sviluppo delle forze produttive: una forza lavoro totalmente docile allo sfruttamento e disponibile just in time. Questa nuova figura operaia, la nuova composizione della classe, è ovviamente il prodotto del sistema di produzione del capitalismo globale, che può molto schematicamente essere riassunto in tre elementi: estremizzazione del processo di finanziarizzazione dell’economia, terza rivoluzione tecnologica con un ruolo inedito delle macchine dovuto al passaggio dall’automazione all’informatica, e dominio delle imprese multinazionali.
L’ipotesi, dentro l’attuale fase imperialista della cancellazione del rapporto di mutuo riconoscimento tra capitale e lavoro salariato ha una serie di implicazioni teoriche molto vaste, che chiaramente non si possono riassumere in maniera organica in un intervento di questo tipo. Rappresenta indubbiamente una sfida di grande portata per il materialismo storico dialettico, che chiama in causa le sue radici filosofiche, occidentali. E d’altra parte quella del confronto e della dissoluzione dei presupposti della tradizione filosofica borghese occidentale, quale portato ideologico di un determinato sistema di produzione e di sfruttamento, è una sfida che il materialismo storico dialettico ingaggia fin dalla sua nascita. E’ quella sfida che Marx condensa nella famosa e forse mai abbastanza riletta IX tesi su Feuerbach, ed è una sfida che il marxismo europeo nella versione ortodossa dei partiti comunisti nazionali del secondo dopoguerra ha sostanzialmente perso, rimanendo ingabbiato in quegli stessi fondamenti filosofici eurocentrici che la teoria marxiana aveva inteso sfondare (di fatto rimanendo ingabbiato in quello che Marx definisce come “il misticismo della dialettica hegeliana”).
Dunque, se il rapporto di riconoscimento (gli uguali diritti) tra Capitale e Lavoro viene meno, se si instaura un paradigma di alterità, di svalutazione, esclusione delle classi subalterne da parte delle élite dominanti, la domanda fondamentale diventa se sia corretto parlare ancora di dialettica, e se un’affermazione di questo tipo non metta in discussione l’intero impianto teorico di interpretazione del capitalismo costruito da Marx. Questa è la sfida, anche sul piano filosofico – che tale lettura della realtà odierna contiene. Due sono le indicazioni che in tal senso si possono dare e che hanno a che fare entrambe con la teoria e la prassi della RAF e con una sua rilettura per il presente.
La prima, è l’indicazione che viene dalla lettura di Marx, e bisogna aggiungere di Lenin, fatta da Louis Althusser. In particolare in “Contraddizione e surdeterminazione”, uno dei saggi contenuti in Per Marx, Althusser introduce come categoria interpretativa fondamentale della dialettica storica materialistica quella per cui la storia avanza sempre “a partire dal suo lato cattivo”. Cosa significa questa affermazione? Significa, sempre semplificando estremamente per motivi di sintesi, che la dialettica nel materialismo storico non è un movimento chiuso nel pensiero, un movimento concettuale e pertanto informato alla logica dell’identità, ma è un movimento che parte dalla complessità della realtà in cui le contraddizioni non sono mai semplici, ossia prende le mosse da quel fenomeno che, come acutamente osservava Lenin nelle sue note a margine della lettura di Hegel, “è sempre più ricco della legge” .Ed è per questo motivo che la dialettica nel materialismo marxiano è intimamente storica. Il fatto che la dialettica parta dalla realtà concreta, ossia dalle contraddizioni materiali concrete della realtà, determina che sia “il lato cattivo”, ossia il lato “non riconosciuto”, pertanto non giustificato, non normalizzato, non facente parte dell’ordine discorsivo dominante con i suoi valori e le sue verità, a muovere, a spingere in avanti, oltre se stessa, la realtà. Tale movimento dialettico quindi non potrà che avvenire come rottura dell’ordine esistente e costituito, e non più come conciliazione delle contraddizioni presenti in esso. Una rottura peraltro che arriva dal di fuori e non ha mai le caratteristiche del progresso lineare e pacifico, né nella forma del riformismo, né in quella dell’egemonia.
Scrive Althusser:
“Per questo il «rovesciamento» marxista della dialettica hegeliana è tutt’altro che una pura e semplice estrazione. Se infatti si coglie chiaramente il rapporto di stretta intimità che la struttura della dialettica instaura in Hegel con la sua «concezione del mondo», ossia con la sua filosofia speculativa, è impossibile gettare davvero alle ortiche questa «concezione del mondo», senza essere obbligati a trasformare profondamente le strutture della dialettica stessa.
Se no, che lo si voglia o no, ci si trascinerà ancora dietro, centocinquanta anni dopo la morte di Hegel e cent’anni dopo Marx, i brandelli del famoso «involucro mistico». Ritorniamo dunque a Lenin e attraverso Lenin a Marx. Se è vero, come dimostrano tanto l’esperienza quanto la riflessione leninista, che la situazione rivoluzionaria in Russia dipendeva precisamente dal carattere d’intensa surdetermìnazione della contraddizione fondamentale di classe, bisogna forse domandarsi in che cosa consista l’eccezionalità di questa «situazione eccezionale» e se, come ogni eccezione, questa eccezione non illumini la regola, se non sia, all’insaputa della regola, la regola stessa. Giacché infatti, non siamo forse sempre nell’eccezione? Eccezione l’insuccesso tedesco del ’49, eccezione l’insuccesso parigino del ’71, eccezione l’insuccesso socialdemocratico tedesco agli inizi del XX secolo in attesa del tradimento sciovinista del ’14, eccezione il successo del ’17… Eccezioni, ma in rapporto a che cosa?…se non in rapporto a una certa idea astratta ma confortante, rassicurante, di uno schema « dialettico » depurato, che aveva, nella sua stessa semplicità, come serbato la memoria (o ritrovato l’ andamento) del modello hegeliano e la fede nella « virtù » risolutiva della contraddizione tra Capitale e Lavoro.
Questa osservazione permette di tornare al binomio “Lenin – Fanon” da cui siamo partiti: Lenin e Fanon hanno entrambi pensato, nella lotta rivoluzionaria contro l’imperialismo, la dialettica tra guerra di posizione e guerra di movimento, non assolutizzando nessuno dei due lati. Lenin, vedeva la guerra di movimento, intesa come insurrezione, quale momento culminante del rapporto crisi-guerra. Dentro la guerra, come passaggio ineludibile delle crisi del capitalismo, si pone la possibilità della rottura e quindi della guerra di movimento. Prima di questo momento, il partito prepara il terreno attraverso la guerra di posizione. Per lo meno questo è il Lenin teorico dell’insurrezione nei paesi imperialisti; se guardiano alle posizioni della Terza Internazionale rispetto alla situazione nei paesi colonizzati, si osserva però che questo rapporto tra guerra di posizione e guerra di movimento è posto in maniera diversa. Una maniera che si avvicina a quella che emerge negli scritti di Fanon. Quando Fanon afferma che “il colonialismo cede solo con il coltello puntato alla gola”, sta dicendo che nei paesi colonizzati non è possibile guerra di posizione che non sia un’articolazione della strategia della guerra di movimento e questo perché dentro la dominazione colonialista non esiste nessun piano di mediazione politica tra potere colonialista e colonizzati: ossia non esiste dialettica del riconoscimento. Perciò per Fanon nelle lotte anticoloniali ogni forma della guerra di posizione, intesa come creazione di strutture legali, è l’esito di una conquista ottenuta mediante l’uso della forza ed è possibile mantenerla solo tramite l’esistenza delle strutture della guerra di movimento. Ora appunto, una lettura della tendenza di sviluppo del capitalismo come quella fatta dalla RAF e che passati quarant’anni sembra essersi inverata su scala planetaria, producendo un paradigma di tipo neocoloniale anche all’interno dei confini dei paesi imperialisti, rende queste riflessioni di Lenin e Fanon sul rapporto tra guerra di posizione e di movimento estremamente attuali. Certamente si tratta di un punto che impone una riflessione strategica approfondita, ma anche una decisione rispetto alla lettura che si fa della realtà che si ha di fronte e delle tendenze che la attraversano. In particolare sembra necessario sciogliere i dubbi sulla questione del venir meno degli istituti di mediazione, intesi come mezzi del compromesso nella lotta di classe e come strumenti di mantenimento del consenso e dell’ordine sociale da parte delle classi dominanti. Ossia, la domanda che necessita una risposta è se, in linea di tendenza, il piano della rappresentanza delle classi subalterne dentro l’orizzonte della democrazia borghese, nelle sue diverse articolazioni politiche, sindacali, ideologiche e culturali, abbia tuttora una sua praticabilità autonoma o comunque separata dal contemporaneo esercizio della forza, oppure se sia in via di cancellazione. E se è così, è sensatamente ipotizzabile una battaglia di retroguardia, nella forma della guerra di posizione, di fronte al venir meno degli istituti della mediazione politica? Una rilettura di Lenin e Fanon, come indicazione che viene da alcune intuizioni della RAF, lo escluderebbe.
La seconda indicazione, rispetto alla compatibilità tra un’analisi marxista e il configurarsi di un paradigma neocoloniale in cui viene meno il rapporto di reciproco riconoscimento tra capitale e lavoro salariato, proviene da un pensatore e militante comunista agli antipodi teorici rispetto ad Althusser: si tratta di Lukács. In particolare, il riferimento è alla categoria di “attualità della rivoluzione”, che Lukács utilizza nel suo saggio su Lenin del 1924. In quel saggio Lukács afferma che la grandezza insuperata di Lenin come rivoluzionario sarebbe stata proprio nell’aver compreso che il punto nodale della teoria di Marx risiedesse nell’attualità della rivoluzione, ossia nel concepire la realtà come una tot