Visioni Militant(i): Julieta, di Pedro Almodovar
Una professoressa cinquantenne, Julieta, è in procinto di partire per il Portogallo insieme al suo compagno Lorenzo. Un incontro fortuito per le strade di Madrid con una vecchia amica della figlia stravolge però la vita della protagonista, facendo riaffiorare il trauma del rapporto interrotto con Antìa (il nome della figlia), andata via di casa a diciotto anni facendo perdere le sue tracce. Julieta decide allora di annullare il viaggio, iniziando a scrivere una lunga lettera alla figlia, ora che ha un minimo indizio di dove possa trovarsi. Inizia così il racconto di trent’anni di vita familiare, cercando le parole e i pensieri capaci di re-instaurare un rapporto con Antìa.
L’ultimo film di Almodovar rappresenta egregiamente una tendenza artistica, non solo cinematografica, in corso da molti anni: l’assenza di risposte alle difficoltà umane. Scompare, come e più di altri film del regista spagnolo, ogni possibile riferimento sociale o materiale. Al regista non interessa inquadrare le difficoltà familiari dei protagonisti in un paesaggio sociale deteriorato o quantomeno capace di influire sul corso delle singole esistenze. Racconta le difficoltà del rapporto tra uomini e donne e fra genitori e figli, come di consueto, per Almodovar, dal punto di vista delle donne. Il senso di colpa latente, la debolezza umana di fronte alla tentazione carnale, ma tutto si risolve nella dimensione privata. Le vicende si susseguono in un’atmosfera artificiosa che inquadra il limite del regista in questo film. L’introspezione familiare di conseguenza non può condurre a risposte plausibili. Può solo mettere in scena situazioni esistenziali critiche. Non a caso il film termina senza soluzioni, ed è, in fondo, un punto di coerenza che non va trascurato. Le domande aperte dalle contraddizioni familiari non possono trovare in queste risposte possibili, se non allargando lo spettro. Almodovar, coscientemente, si tiene ben lontano da tutto ciò, e dunque la sua incapacità di orientamento è già una possibile risposta. O una resa.
La tragica scomparsa del marito Xoan frantuma l’apparente solidità su cui si regge il rapporto familiare. Una solidità apparente, perché una certa cupezza emerge lungo tutto il film. Un sottofondo d’ansia di cui però non si rintracciano le cause se non, flebilmente, nelle pulsioni carnali tanto del marito quanto del padre di lei. La precaria stabilità va in pezzi nel momento della tragedia. La figlia Antìa, nel frattempo divenuta amica inseparabile di una sua coetanea, Beatriz, si prenderà cura di Julieta sconvolta dalla vicenda, procedendo ad un ribaltamento dei ruoli: la figlia, reagendo con apparente forza e razionalità, assumerà il ruolo di “badante” di una madre in fase depressiva. Fino al compimento del diciottesimo anno d’età. Per quel giorno Antìa deciderà di partire per tre mesi per un “ritiro spirituale”(!). Passato il periodo, Antìa scompare, decidendo di rompere improvvisamente i rapporti tanto con la madre quanto con l’inseparabile amica Beatriz. Perché? Non si capisce. Il peso dell’inversione dei ruoli, una maturità raggiunta precocemente e al prezzo di un’adolescenza negata, è sicuramente una molla psicologica adeguata, ma nel film questo peso non si avverte e anzi le bambine sono ben consce della necessità di questo ruolo. Eppure, di punto in bianco, la separazione traumatica sembra spiegarsi da sé. Una sceneggiatura poco attenta non basta a spiegare i buchi evidenti del racconto. La forza di Antìa si capovolge improvvisamente in estrema debolezza, senza alcuna ragione. L’estremo altruismo si tramuta in altrettanto egoismo. Antìa sembra accusare la madre della scomparsa del padre, ma questo non è mai mostrato nella narrazione, quanto compreso successivamente attraverso la testimonianza di un’amica di Julieta, nel frattempo rimasta in rapporti con la figlia. Come avviene questa trasformazione? E’ un processo che si sedimenta poco a poco, oppure un capovolgimento improvviso? Anche qui, nessun accenno a possibili risposte. Bisogna accontentarsi di quel che si vede, senza interpretarlo.
Insomma, il film procede per mezzo di domande sbagliate a cui non seguono risposte credibili. Rimane la forza di un racconto gradevole che però non riesce ad illuminare, neanche parzialmente, nessuna delle questioni che tocca. Il mestiere di Almodovar si vede, ma è insufficiente alla costruzione complessiva dell’opera. Un’opera formalmente ben fatta che però nasconde un’inutilità filosofica disarmante.