Verso le elezioni, un’ipotesi di geografia politica di Roma
Le elezioni, ci piaccia o meno, sono delle istantanee che registrano il clima politico in un determinato momento della vita pubblica. Come le fotografie non trasformano la realtà, non sono cioè in grado di produrre di per sé un fatto politico, quanto piuttosto di restituire, anche se in forma grossolana ed approssimativa, qualcosa che nel corpo sociale si è già prodotto, rendendolo così intelligibile. Detta in altri termini: se ad esempio la destra si afferma in alcune periferie, non lo fa perché vince le elezioni, ma vince le elezioni perché si è precedentemente affermata in quei territori. Un concetto banale, persino scontato, ma che viene sistematicamente rimosso dalle riflessioni di certa sinistra ogni volta che si avvicina una scadenza elettorale. Una sinistra convinta che le elezioni siano una sorta di “gratta e vinci” della politica in cui da un giorno all’altro inaspettatamente “te po’ di bene” e guadagnare un posto nelle istituzioni. Un approccio miracolistico che ci ha sempre lasciati più che perplessi e che negli ultimi anni ha spinto liste e micro liste di sinistra sempre di più nel campo dell’innocua testimonianza. La costruzione del consenso, anche quello elettorale, è condizionata da processi di lunga durata, faticosi quanto ineludibili, e fintanto che collettivamente non ne prenderemo atto saremo relegati al ruolo di semplici spettatori rispetto ad un campo su cui invece sarebbe importante provare a dispiegare alcuni aspetti della lotta di classe. Fatta questa premessa proviamo a mettere una dietro l’altra le “fotografie elettorali” di questi ultmi anni trasformandole in fotogrammi capaci di raccontare in maniera più dinamica almeno due dei processi che hanno investito questa città e che ci riguardano da vicino. Il primo dato che balza agli occhi è certamente quello della progressiva diminuzione della partecipazione al momento elettorale, un fenomeno su cui abbiamo scritto molto, legato alla fine del ciclo politico socialdemocratico e alle trasformazioni delle forma stato, ma che espresso in termini numerici diventa forse ancora più significativo. Nel 1985 su 2.270.207 aventi diritto i votanti furono 1.990.159 che corrispondeva ad un’affluenza dell’87,7%. Alle elezioni del 2013, mentre il numero degli aventi diritto è salito a 2.356.119 (a fronte di una popolazione pressoché stabile, segno di una città che invecchia) i votanti sono scesi a 1.247.345, con un affluenza pari al 52,9%. Nell’ultimo trentennio la partecipazione al voto ha dunque registrato un trend negativo pari a -35 punti percentuali, e nulla fa pensare che le prossime elezioni del 5 giugno possano invertire questa tendenza, anzi. Si tratta dunque di un “fatto politico” enorme su cui chiunque aspiri a (ri)costruire un insediamento sociale non può non articolare una riflessione e un agire conseguente. Un dato che ben si ricollega ad alcuni numeri sulla spoliticizzazione di massa che emergono indirettamente da alcuni studi effettuati dall’ISTAT e secondo cui il 30% dei romani sopra i 14 anni non parla mai di politica e solo il 10% lo fa tutti i giorni. Mentre nel 2014 solo il 5% dei romani intervistati ha partecipato almeno ad una iniziativa politica, solo il 4% ha partecipato ad una manifestazione e solo l’1% ha svolto attività politica. L’altro elemento su cui riflettere è poi la distribuzione geografica del voto. In modo del tutto arbitrario possiamo provare a suddividere Roma in zone concentriche: la città consolidata, che si estende fino all’anello ferroviario; la periferia storica, che arriva fino ai grandi viadotti (Viale Togliatti, Viale Newton, Pineta Sacchetti); la periferia “anulare” a ridosso dei 68 km del GRA in cui (soprav)vivono quasi un milione di persone e infine la periferia “regionale”, composta da quei comuni dell’hinterland in cui negli ultimi anni sono stati espulsi quasi 200mila romani costretti ogni giorno a rientrare a Roma per lavorare. Una città senza forma, pulviscolare, in cui, come dimostra un interessante studio sulle tendenze elettorali di Federico Tommasi “vige una sorta di legge gravitazionale, in cui l’attrazione del Campidoglio ha un effetto opposto sulle due principali coalizioni man mano che ci si allontana verso le periferie”. Tanto ciò che rimane della cosiddetta sinistra radicale, quanto il centrosinistra nel suo complesso, vedono infatti diminuire progressivamente il consenso man mano che ci si allontana dal centro, mantenendo il massimo nei voti in quella periferia storica dove ancora permane l’eco della forte politicizzazione di massa del secondo novecento, e raccogliendo il minimo dei consensi nei quartieri al di fuori del Raccordo Anulare. Una discrepanza che nel caso del PD raggiunge 11 punti percentuali (regionali 2013) e per la lista Tsipras 4,5 punti percentuali (Europee 2014). Viceversa i voti per il centrodestra, e negli ultimi anni per il Movimento 5 Stelle, sono inversamente proporzionali alla vicinanza dal centro, con il massimo fuori dal GRA e il minimo nella periferia storica. Si tratta di una riflessione che qui diventerebbe lunga da articolare fino in fondo, perché ha a che vedere con la struttura che la città assume in queste periferie, la sua congenialità all’affermazione di pratiche politiche notabilari e la conseguente nostra difficoltà nell’individuare e proporre una forma di organizzazione alternativa. Ma è una riflessione che, lo ribadiamo, non può essere elusa perché è soprattutto in quelle periferie che va radicata una nuova organizzazione sociale di massa.