QI vs QE
E’ ormai passato più di un anno dal primo colpo di Bazooka sparato da Draghi, eppure il Quantitative Easing (QE) all’europea sembrerebbe aver avuto un impatto piuttosto modesto sull’economia reale del continente. Prova ne sono un tasso d’inflazione che continua ad oscillare intorno allo zero, e le percentuali del Pil medio che, seppure col segno più davanti, persistono nell’indicare una crescita anemica. E questo nonostante i 60 miliardi di euro creati ex novo ed immessi mensilmente sui mercati europei. Molti analisti addebitano questa scarsa efficacia al ritardo con cui si è mossa la Bce, altri al fatto che l’art. 123 del trattato di Maastricht le vieti espressamente l’acquisto di titoli di stato sul mercato primario, cosa che invece accade negli Stati Uniti, altri ancora alla relativa frammentazione dei mercati finanziari europei che finirebbe di fatto col depotenziare l’effetto dell’immissione di liquidità oppure al fatto che in Europa il principale canale di finanziamento delle imprese rimane comunque quello bancario. Ognuna di queste osservazioni contiene un fondo di verità, tuttavia occorre sottolineare come nemmeno le economie degli stati che per primi e con più decisione hanno adottato politiche monetarie espansive godano oggi di buona salute. Propaganda a parte, pensiamo infatti a quanto accade al di la dell’Atlantico dove, malgrado la “ripresa economica”, il Pil reale continua ad essere molto inferiore (-10%) alle previsioni che venivano fatte soltanto nel 2007, ovvero al quel Pil potenziale calcolato sulla base dello stock di capitale, della quantità di forza-lavoro, del tasso di disoccupazione naturale e della produttività. Una situazione tutt’altro che rosea in cui si registra nei Paesi del centro capitalista un calo più che quarantennale degli investimenti fissi lordi (quelli i cui effetti pesano sulla capacità produttiva nel lungo periodo) solo in parte compensata dagli investimenti produttivi nei (e dei) Paesi emergenti. Una prospettiva che ha spinto sempre più economisti, sicuramente non in odore di marxismo, a rispolverare l’idea secondo cui l’economia mondiale sarebbe entrata in una fase di “stagnazione secolare”, ovvero una lunga depressione in cui sarà alquanto difficile, se non impossibile, attendersi una crescita soddisfacente in condizioni finanziarie sostenibili. L’inefficacia degli strumenti adottati sta dunque nell’incapacità da parte delle classi dominanti di comprendere la reale natura della crisi. La soluzione scelta dalla Fed, dalla Banca d’Inghilterra, dalla Banca del Giappone e successivamente anche dalla Bce è stata quella di provare a “stimolare la produzione” attraverso l’immissione di enormi quantità di denaro nell’economia. E questo secondo la convinzione, assolutamente sballata, che le crisi economiche siano generate da una “carenza di offerta”, e che sia quest’ultima a generare la domanda. Queste convinzioni poggiano ovviamente sulla fede assoluta nella capacità di autoregolazione del mercato e sull’idea che l’investimento privato rappresenti il fattore principale di una possibile ripresa, a cui subordinare eventualmente l’investimento pubblico. Su questo blog abbiamo affrontato più volte la questione della crisi strutturale e per evitare di appesantire la lettura rimandiamo ai contributi precedenti, ribadiamo solo che, anche se potrebbe apparire controintuitivo, l’attuale crisi non si genera per un problema di scarsità ma di sovrabbondanza. Una sovrapproduzione di capitali che, impossibilitati ad essere valorizzati, giacciono inutilizzati. Il vero problema dell’economia mondiale non risiede dunque nella carenza di liquidità ma nel suo eccesso. L’immissione di ulteriore liquidità non risolve quindi il problema dell’accumulazione o quello della profittabilità, per certi aspetti è un po’ come irrigare un campo allagato, ma finisce con alimentare la crescita di capitale fittizio e di bolle speculative destinate a nuove e più deflagranti esplosioni. Chiudiamo con un dato significativo riportato da uno studio della McKinsey: dal 2007 al 2014 il debito a livello mondiale è cresciuto di 57 trilioni di dollari, con un ritmo superiore a quello del Pil mondiale, portando il rapporto debito/Pil dal 269% al 286%. Non ci voleva certo un premio Nobel per prevederlo, né il QE e neppure il QI, bastava un po’ di QM… il quoziente marxista.