La Siria, lo Stato Islamico e la “guerra all’Europa”/ultima parte
Si chiude con questo ultimo post il nostro approfondimento sulle connessioni tra la guerra siriana, lo Stato Islamico e la guerra nel cuore dell’Europa. A breve provvederemo a dargli una forma più organica, anche dal punto di vista grafico, trasformando questi sei post in un unico file pdf che potra eseere scaricato e stampato. Nel frattempo qui trovate la prima, la seconda, la terza, la quarta e la quinta parte.
L’Europa, scriveva con innegabile capacità anticipatoria Jean Monnet, primo presidente della Ceca, sarà la risposta alle sue crisi. E’ da questa prospettiva palingenetica che va analizzato il processo d’integrazione europeo, nato dal compromesso tra il pragmatismo confederalista e le ambizioni federaliste, e poi definitosi come polo imperialista autonomo sulla base di successive approssimazioni e veri e propri combattimenti economici e politici fra le diverse frazioni delle borghesie continentali. Ed è sempre in quest’ottica che deve essere interpretato l’impatto che gli attacchi di Parigi dello scorso novembre stanno producendo sull’intera impalcatura dell’Unione Europea. Consapevoli dunque del loro carattere “transitorio” è quindi possibile provare ad indicare alcuni degli elementi di novità con cui saremo chiamati a confrontarci nei prossimi anni.
Il primo, dall’enorme valore anche simbolico oltre che materiale, è la messa in discussione del trattato di Schengen. Con o senza sospensioni ufficiali la libertà di circolazione garantita dal trattato entrato in vigore nel 1995 è di fatto saltata sotto la pressione congiunta della marea inarrestabile di rifugiati in fuga dalle zone di guerra che dal Mediterraneo si è riversata in Europa risalendo la dorsale balcanica, della lotta al terrorismo, degli attentati e della guerra allo Stato Islamico fuori e dentro l’Europa. Esiste un nesso inscindibile tra il mercato unico dei capitali e delle merci a cui aspira la borghesia imperialista europea e la libera circolazione delle persone, ovvero di quella che tra le merci è la più importante, la forza-lavoro. Una connessione talmente forte che all’inizio di dicembre ha portato il presidente della Commissione UE, Jean-Claude Junker a ricordare a tutti, di fronte alla platea dell’europarlamento, che senza Schengen l’euro non può esistere. Del resto, secondo un rapporto della stessa Bce, la mobilità intereuropea della forza-lavoro è aumentata notevolmente dopo l’introduzione della moneta unica ed ha rappresentato un’importante valvola di sfogo di fronte alla “svalutazione interna” (compressione dei salari e disoccupazione) a cui sono state costrette le economie meno competitive dal regime dei cambi fissi.
Un secondo elemento di novità è il ritorno, seppure in forma contraddittoria, della sovranità nazionale. Se, come scriveva Carl Schmitt “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”, la decisione di Hollande, all’indomani degli attacchi del 13 novembre, di applicare l’état d’urgence, derogando alla “Convenzione europea dei diritti umani”, è in effetti una decisione di sovranità. Come sottolinea giustamente Paolo Raffone in un recente volume di Limes: un atto di potere sovrano metagiuridico che rischia di avere conseguenze indirette sull’Unione Europea: ristabilire la sovranità nazionale significa farlo anche nei confronti delle strutture sovranazionali, come l’Ue. La guerra al terrorismo e al nemico interno sta quindi costringendo l’Ue ha dismettere quella maschera di “Europa benigna” che pure aveva sedotto certa sinistra e a mostrare il suo volto reale. La deriva securitaria intrapresa dalla Francia finisce con il rappresentare, da questo punto di vista, un vero e proprio paradigma per le altre cancellerie europee. Sulla scorta del Patriot Act varato negli Stati Uniti dopo gli attentati del 11 settembre 2001 François Hollande ha prima ottenuto la proroga fino alla fine del febbraio 2017 dello stato d’emergenza, estendendone l’ambito d’applicazione rispetto alla legge varata durante la guerra di Algeria, e punta ora ad una sua vera e propria istituzionalizzazione per mettersi al riparo dalle accuse di incostituzionalità. Dando così forma a quello stato d’eccezione permanente, con la conseguente militarizzazione dei rapporti politici, a cui facevamo riferimento alcune settimane fa (leggi). A fine dicembre è stata infatti presentata in Consiglio dei ministri la proposta di riforma della Costituzione, che sarà sottoposta al voto dell’Assemblea dal 3 febbraio prossimo e che in seguito passerà al vaglio del Senato. La riforma contiene essenzialmente due proposte: l’introduzione dello stato d’emergenza nella Costituzione, appunto, e l’estensione della possibilità di ritirare la nazionalità francese a tutti i cittadini con un doppio passaporto, anche coloro che sono nati francesi, in caso di condanna definitiva per terrorismo. Una misura, quest’ultima, di assoluta inefficacia pratica e che lo stesso premiere Valls ha definito “simbolica”, ma che rivela drammaticamente quanto si sia spostato a destra il baricentro del dibattito politico francese, dove ormai non rappresenta più un tabù nemmeno evocare pubblicamente la costituzione di campi di prigionia preventivi per sospetti jihadisti. Delle vere e proprie Guantanamo bleu-blanc-rouge in cui internare i cittadini contrassegnati con la cosiddetta “fiche S” (leggi).
Il terzo elemento di riflessione, pur non rappresentando una novità quanto piuttosto una conferma delle contraddizioni europee, è dato dalla mancanza o, meglio, dall’impossibilità di una politica di sicurezza comune dell’Ue collegata agli interessi spesso ancora divergenti delle borghesie europee. Il 16 novembre, tre giorni dopo gli attacchi di Parigi, Hollande aveva sottolineato in un discorso pronunciato davanti al parlamento francese la necessità di dare vita ad “una grande e unica coalizione internazionale” per combattere l’IS. Per cercare di costruirla il presidente francese ha dato vita ad una vera e propria maratona diplomatica incontrando, nel giro di pochi giorni, i più importanti capi di stato e ottenendo però, soprattutto dall’Europa nel suo complesso, tanta solidarietà e commozione, ma di concreto poco o nulla. Così che la “grande coalizione” è stata velocemente derubricata dagli stessi francesi a “grande coordinamento”. L’unico Paese europeo a seguire Parigi nel suo impegno bellico è stata, ancora una volta, la Gran Bretagna, dove è andato in scena l’ennesimo psicodramma della sinistra socialdemocratica. Il Labour Party guidato dal “rosso” Corbyn si è infatti presentato al dibattito parlamentare spaccato come non mai. Ben 66 parlamentari laburisti hanno votato a favore dei bombardamenti disattendendo la linea del loro segretario che, fiutata la situazione, aveva lasciato formalmente libertà di voto. E’ particolarmente significativo, inoltre, che a votare a sostegno dell’intervento militare siano stati anche 11 dei 27 ministri del governo ombra formato dallo stesso Corbyn. Così facendo Cameron è riuscito ad ottenere da Westminster quel consenso che, anche se in un contesto completamente diverso, due anni fa gli era stato rifiutato. Contestualmente Londra ha annunciato un incremento delle spese militari che si stabilizzeranno intorno al 2% del Pil, come richiesto dalla Nato. Illustrando la Defence spending review Cameron ha anche annunciato la costituzione di due nuove brigate da 5mila uomini. Nelle intenzioni dello stato maggiore inglese queste nuove unità di intervento rapido dovranno far fronte alla minaccia esterna e, come esplicitato dallo stesso Cameron, a quella interna: non possiamo più scegliere fra difesa convenzionale contro altri Stati e la minaccia che proviene da entità senza confini nazionali. Oggi siamo di fronte a entrambe e dobbiamo rispondere ad entrambe. Paradossalmente il risultato più importante Hollande l’ha incassato da Putin che in questo modo, oltre a riconquistare una centralità diplomatica, ha messo in crisi l’occidente rispetto al rinnovo delle sanzioni che scadranno il prossimo 31 gennaio, con la Francia che adesso preme per una revoca. Una tesi che entusiasma anche la Farnesiana e Confindustria consapevoli che le sanzioni, unitamente alla crisi economica russa, hanno abbattuto di circa 3 miliardi di euro le commesse italiane per il 2015. Di avviso piuttosto diverso è invece Washington per i quali, come riporta il Financial Times, “sarebbe un errore imperdonabile accettare ogni scambio fra Siria ed Ucraina” e che le ragioni per un eventuale allentamento delle sanzioni non solo collegate a quanto accadrà sui cieli di Raqqa.
L’ultimo aspetto su cui vale la pena soffermarsi, fosse anche soltanto per una nota di “colore”, riguarda il fiscal compact, il totem di fronte a cui, in nome dell’austerità, sono state sacrificate tutte le politiche di welfare. Un dogma che, come ha dimostrato la Grecia, a detta della troika non era possibile violare nemmeno di fronte a vere e proprie emergenze sociali e che invece è stato prontamente accantonato per le spese militari. Segno forse che è al Dio della guerra, e solo a lui, che ancora guardano le classi dominanti per far ripartire un nuovo ciclo di accumulazione.