La Siria, lo Stato islamico e la “guerra all’Europa”/quarta parte
Quarto appuntamento con il nostro approfondimento, qui la prima, la seconda e la terza parte.
Peter Harling su “Le Monde Diplomatique” ha definito lo Stato Islamico come un “mostro provvidenziale”. Un’entità che non vale tanto per quello che è, ma per come viene percepita e usata dalle potenze locali, regionali e globali. Una definizione particolarmente calzante in un contesto mediorientale che registra, sotto il dominio di Obama, il progressivo “disimpegno” degli Stati Uniti. Lungi dal pensarlo come una minaccia strategica, la Casa Bianca ritiene infatti lo Stato Islamico un soggetto utile ad attirare nella contesa le nazioni limitrofe, ed indurle ad impantanarsi in una riedizione della “strategia del contenimento” allargata a nuovi attori. Al di la delle dichiarazioni di circostanza per Washington il califfato va contenuto, non eliminato. E’ innegabile infatti che l’IS sia stato adoperato, e venga ancora oggi utilizzato, come uno strumento geopolitico: le monarchie arabe sunnite lo utilizzano per fare una guerra per procura contro Teheran, gli iraniani per consolidare il controllo di uno spazio geografico ininterrotto che dal mare Arabico raggiunge il Mediterraneo (la cosiddetta mezzaluna sciita) e i turchi per la loro “profondità strategica” contro i curdi e per le loro mire egemoniche. Un moderno “great game” caratterizzato dall’impossibilità per ogni singolo contendente (o coalizione di forze) di prevalere in maniera decisiva sui rivali, ma che sta divorando gli Stati postcoloniali del Novecento. Nel gioco delle alleanze, fino allo scoppio delle rivolte arabe in Medio Oriente, si era assistito essenzialmente alla lotta fra il cosiddetto “asse della resistenza” guidato dall’Iran e un variegato fronte costituito da Stati Uniti, da Israele e dai cosiddetti regimi arabi “moderati”. Quest’ultimi rappresentavano essenzialmente uno schieramento sunnita guidato dall’Arabia Saudita e dall’Egitto. Le “primavere arabe”, unitamente alla nuova dottrina obamiana e all’accordo con l’Iran sul nucleare, hanno però notevolmente complicato questo quadro. L’asse della resistenza ha subito un ridimensionamento con la spaccatura di Hamas. Il movimento islamico-palestinese si è schierato dalla parte dei ribelli siriani, a maggioranza sunniti e sostenuti dai Fratelli Musulmani, organizzazione di cui Hamas stesso è una ramificazione. A causa di questo la leadership del gruppo ha lasciato Damasco, dov’era ospitata dal 2001 e si è trasferita in Qatar. Significativamente nel 2013, quando Hamas ha deciso di riaprire un quartier generale distaccato all’estero, lo ha fatto a Istanbul, dove è stato accolto a braccia aperte dal vertice dell’Akp, l’attuale partito governativo del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Sarà forse utile a questo punto ricapitolare in maniera sintetica le motivazioni delle principali potenze regionali e internazionali, che, in misura diversa, sono state risucchiate nel gorgo della crisi siriana.
Turchia
Nel 2011 il governo turco è stato fra i primi stati a reagire alla rivolta scoppiata in Siria, voltando le spalle Bashar al-Asad, che fino a quel punto era considerato un prezioso alleato, anzi un “fratellino”, come Erdoğan amava definire il presidente siriano. Solo nel 2010 Ankara aveva infatti presentato un progetto per la costruzione di un’area di libero scambio che comprendesse, oltre alla Turchia, anche la Siria, la Giordania, il Libano e l’Iraq. L’idea era quella di garantire, oltre a quella delle merci, anche la libera circolazione dei rispettivi cittadini, abolendo il regime dei visti sulla falsa riga del trattato europeo di Shengen. Il progetto avrebbe dovuto rappresentare la concretizzazione del concetto di Ottoman Nations Gathering proposto dall’allora ministro degli esteri e attuale primo ministro turco Ahmet Davutoğlu, una strategia nota anche come neo-ottomanesimo. Il Şamgen, questo doveva essere il nome dell’area di libero scambio (da Şam, toponimo turco di Damasco), venne però spazzato via dalle “primavere arabe” in coincidenza delle quali Ankara aggiustò la propria strategia mediorientale sostenendo l’ascesa dei fratelli musulmani. La posizione assunta dalla Turchia durante la guerra del Golfo del 1991 e l’invasione statunitense del 2003 avevano alienato al governo di Ankara la possibilità di influire sull’evoluzione irachena, costringendola a fare i conti con la nascita di un Kurdistan iracheno semi-indipendente. Per queste ragioni il governo turco ha deciso fin da subito di adottare nei confronti della Siria una strategia differente, accogliendo la leadership dei Fratelli Musulmani, ospitando le conferenze del “Consiglio nazionale Siriano” (Cns) e della “Coalizione dell’Opposizione Siriana” (Cos) e permettendo ai vertici militari del “Esercito Siriano Libero” (Fsa) di operare nel proprio territorio. fornendo loro sostegno logistico ed economico. La resilienza del presidente al-Asad ed il colpo di stato egiziano del 3 luglio 2013, hanno però fatto collassare anche la seconda fase della strategia neo-ottomana della Turchia, volta a favorire l’installazione di governi amici a Damasco e al Cairo. Secondo l’ex ambasciatore turco a Baghdad, Murat Özçelik, il sostegno offerto da Erdoğan allo Stato islamico e alle altri gruppi jihadisti fa parte di una nuova fase di questa strategia volta a favorire l’implosione delle entità statali di Siria e Iraq e ad integrare gli stati sunniti, che dovrebbero sorgere a sud della Turchia, in una struttura federale governata da un sistema presidenziale. La “politica dell’occhio chiuso” adottata da Erdoğan nei confronti del Califfato vede dunque al-Baghdādī soprattutto come un attore sunnita nel contesto del “Siraq” sciita, piuttosto che come un jihadista sanguinario. In questo momento la Turchia sta quindi combattendo almeno tre battaglie: una del mondo sunnita contro al-Asad e gli sciiti, un’altra per la leadership tra i musulmani nel Levante e una, forse in questo momento la più importante, per evitare la nascita di un proto stato curdo lungo i suoi confini con la Siria. Per queste ragioni Ankara è stata più che compiacente nei confronti del Califfato e per gli stessi motivi la Turchia vorrebbe coinvolgere la Nato in un’operazione di terra nel nord della Siria, rivolta formalmente contro lo Stato Islamico ma indirizzata concretamente contro le milizie curdo-siriane dell’YPG e contro i militanti del PKK.
Nel marzo scorso a Riyāḍ, durante un vertice tra Erdoğan ed il re saudita Salman, è stato raggiunto un accordo per il sostegno congiunto ad una coalizione di ribelli formata da al-Nuṣra, Aḥrār al-Shām e gruppi minori. Stando a quanto riporta un articolo uscito il 13 aprile sull’Huffington Post, in quell’occasione Turchia e Arabia Saudita avrebbero raggiunto anche un’intesa per una possibile operazione militare in Siria volta a rovesciare direttamente il regime di al-Asad. Questa intesa prevedeva l’invasione di terra da parte dell’esercito turco e la copertura aerea dell’aviazione saudita. Sempre secondo quanto riportato dall’articolo l’emiro del Qatar, paese con cui Ankara ha da poco stipulato un accordo militare che prevede la possibilità di schierare truppe congiunte in paesi terzi, avrebbe discusso del piano con Obama ottenendo un tacito assenso. Nei mesi seguenti, per diverse ragioni, Ankara non diede seguito immediato a questa operazione militare. In primo luogo perché l’accordo con Riyāḍ sul sostegno congiunto ai “ribelli”, aveva già permesso di ribaltare, almeno in parte, gli equilibri del conflitto, come dimostravano la conquista di Idlib e Jisr ash-Shugur. C’erano poi da superare le resistenze dell’esercito turco di fronte all’interventismo di Erdoğan. Ed infine pesava l’approccio diverso di Turchia e Arabia Saudita rispetto all’Iran. Ankara, infatti, coltiva l’ambizione di trasformare il proprio paese un hub geoenergetico fondamentale per l’Europa attraverso lo sviluppo del cosiddetto corridoio meridionale in cui, già dal 2019, dovrebbe confluire il gas azero diretto nel vecchio continente e in cui, sempre nei progetti di Ankara, dovrebbero confluire anche il gas iraniano e turkmeno. Questo permetterebbe al paese, in un futuro non troppo lontano, di rappresentare agli occhi degli europei un’importante alternativa all’approvvigionamento russo. L’Iran rappresenta inoltre un importante mercato di sbocco per le merci turche. Il volume delle esportazioni ammonta attualmente a 10 miliardi di dollari e sarebbe destinato a triplicarsi già entro il 2017. Nel medio periodo, secondo analisti turchi, i volumi dell’interscambio potrebbero salire addirittura a 90 miliardi di dollari. L’intervento diretto dei russi nel settembre scorso ha però anticipato e disinnescato, probabilmente in maniera definitiva, la realizzazione dei progetti di Ankara e Riyāḍ, e questo spiegherebbe almeno in parte l’azzardo compiuto da Erdoğan con l’abbattimento del bombardiere russo. Un tentativo (fallito) di provocare una reazione militareda parte di Mosca, cosi da poter forzare la mano ai propri alleati invocando l’articolo 5 del Patto Atlantico, quello che prevede l’obbligo d’intervento al finco di un paese alleato attaccato.
Recentemente il Sole 24 Ore ha dedicato due pagine ad un’illuminate inchiesta sul ruolo svolto dalla Turchia e dal Qatar nel traffico di armi a sostegno dei gruppi jihadisti. Il quotidiano della Confindustria, a cui certamente non possono essere rimproverate simpatie antimperialiste, ha reso note alcune delle conclusioni a cui è giunto il “Gruppo di esperti” del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ne viene fuori un quadro interessante che vede nella Libia, nella Turchia e nel Qatar i vertici di una triangolazione di armi diretta in Siria. Tra le spedizioni dettagliatamente descritte nel rapporto Onu è particolarmente significativa quella di alcuni C-17 partiti dalla Libia ed arrivati in Turchia dopo aver fatto scalo in Qatar. Gli aerei da trasporto militare, di proprietà del Qatar, sono infatti volati da Tripoli e Bengasi fino a Doha usufruendo di uno speciale nullaosta diplomatico-militare che solitamente viene utilizzato per il trasporto di armi o equipaggiamento bellico. Gli incaricati dell’Onu hanno chiesto chiarimenti e dettagli ai Paesi i cui spazi aerei erano lungo la rotta percorsa (Grecia, Egitto, Arabia Saudita) ottenendo scarsissimi risultati. Ancora più reticente si è dimostrata, però, la società responsabile dei piani di volo, la Jeepsen. Un’azienda che, ad un più approfondito controllo, è risultata essere molto vicina alla Cia, tanto da esserne stata indicata come “l’agenzia di viaggio”. La Jeepsen infatti non è una società qualsiasi, ma è un’ azienda controllata dalla Boeing, un colosso che deve il 30% del suo fatturato al Pentagono, ed è anche l’agenzia che è stata adoperata dalla Cia per la campagna di extraordinary rendition dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Ovvero il rapimento al di fuori degli Stati Uniti di persone sospettate di avere rapporti con al-Qāʿida e il loro trasferimento in stati terzi, dove i “sospetti” venivano torturati da agenti locali per conto dell’intelligence statunitense. Un’ulteriore ragione di interesse è data però dall’aeroporto in cui i C-17 hanno fatto scalo. Non si tratta diuna pista qualsiasi, ma di quella della base di Al Udeid, dove ha sede il “quartier generale avanzato” del comando mediorientale delle Forze Armate statunitensi, il Central Command, e che oltre a ospitare il 379° stormo dell’Usaf è sede anche dell’83° stormo della Raf, l’aeronautica militare britannica. Insomma a tutti gli effetti una base anglo-americana. Risulta davvero difficile credere che i vertici militari occidentali potessero non essere al corrente della natura del carico e della sua destinazione. Questo a dimostrazione, ancora una volta, che tra il “bianco” della civiltà moderna occidentale e il “nero” dell’oscurantismo jihadista esiste tutta una gradazione di grigi in cui i confini tra il bene e il male diventano meno netti. Ankara, dal canto suo, ha sempre negato di essere a conoscenza dei trasferimenti di armi verso i ribelli anti al-Asad, eppure lo scorso maggio il giornale turco Cumhuriyet ha rivelato, foto comprese, che tir stipati di armi partivano dalla Turchia per rifornire i ribelli turkmeni. Le immagini scattate nel gennaio del 2014 documentavano l’intervento del Mit (i servizi segreti turchi) per fermare una perquisizione della polizia alla frontiera. Erdoğan aveva giurato al direttore di “fargliela pagare” e così è stato. Per quello scoop, il 26 novembre scorso il direttore di Cumhuriyet, Can Dündar, e il capo della redazione di Ankara, Erdem Gül, sono stati arrestati su richiesta del Tribunale di Istanbul. A innescare la reazione giudiziaria era stato lo stesso presidente Erdoğan, il quale ha prima promesso che i due avrebbero “pagato un duro prezzo” e poi presentato di persona una denuncia per tradimento e divulgazione di segreti di Stato. Se in quelle casse ci fossero davvero stati beni umanitari, come ha provato a sostenere la Turchia, quelle accuse però non si spiegherebbero. E adesso i due giornalisti non rischierebbero l’ergastolo. Al di là dell’origine di quello specifico convoglio è certamente impensabile che la cosiddetta “autostrada del Jihad”, la rotta che il Califfato di Abū Bakr al-Baghdādī ha usato per anni per portare jihadisti stranieri e rifornimenti dalla Turchia in Siria, non fosse monitorata dalle forze di sicurezza di Ankara. Come è difficile credere che tutte queste iniziative turco-qatariote in Libia e Siria siano passate inosservate agli statunitensi e agli altri paladini della “guerra al terrorismo”.
Russia
Per certi versi anche l’intervento russo sembrerebbe confermare la funzione di “mostro provvidenziale” svolta dello Stato islamico. Un proto Stato da cui nessuno, tranne al-Asad, si sente realmente minacciato, e contro il quale si possono dichiarare grandi coalizioni salvo poi tollerarne e addirittura eccitarne le scorrerie quando colpiscono interessi rivali. Nel cercare di analizzare il sostegno diplomatico e militare dei russi nei confronti della Siria occorre però tenere conto di quello che abbiamo già definito il “precedente libico”. In quel caso l’astensione russa e cinese in sede Onu aveva permesso di approvare una risoluzione che autorizzava l’uso della forza per imporre una no-fly zone a “difesa dei civili”. L’intervento della Nato si era però subito trasformato in un aperto sostegno ai ribelli libici, finalizzato ad imporre un “regime change” che, almeno formalmente, non rientrava negli scopi della missione e che, oltre che a una violazione del diritto internazionale, rappresentò anche uno schiaffo diplomatico che Mosca e Pechino difficilmente dimenticheranno. Oltre alla volontà che si potesse ripetere uno scenario libico ci sono pero almeno altri due fattori che vanno considerati:
1) Dopo il tracollo delle relazioni con l’Egitto di Sadat e lo smantellamento delle basi navali di Alessandria e Marsā Maṭrūḥ, la base navale di Tartus, in Siria, rappresenta l’unico ed irrinunciabile punto d’appoggio navale russo nel Mediterraneo. Nel gennaio del 2005 Vladimir Putin ha cancellato il 75% del debito accumulato dalla Siria nei confronti della Russia per spese militari, un segno più che tangibile dell’importanza che il trattato di amicizia fra i due paesi, firmato nel 1980, riveste tuttora per Mosca.
2) Un paese come la Russia, che all’inizio del 2015 dipendeva ancora per il 50% del proprio Pil dal settore idrocarburi, non può non avere un piede in Medio Oriente, l’area che ospita il 40% delle riserve accertate di petrolio ed il 41% di quelle di gas naturale. La stessa regione che attraverso lo stretto di Hormuz e del Canale di Suez controlla la movimentazione di una parte notevole delle risorse energetiche mondiali e in cui viene influenzato, in misura decisiva, il mercato mondiale dell’energia. Basti pensare all’impatto avuto dalla sovrapproduzione saudita nella guerra del prezzo del petrolio, passato in un anno da 113 a 38 dollari al barile, e alle enormi ricadute che questo ha avuto sulle economie dei paesi produttori.
Lo scorso settembre Putin ha così compiuto sullo scacchiere mediorientale quello che qualcuno ha definito acutamente la mossa del cavallo, cosa che gli ha permesso di uscire dall’arrocco ucraino, dove l’Occidente sperava di averlo confinato con le sanzioni per l’annessione della Crimea. Ordinando di schierare un robusto contingente militare nel Nord-Ovest della Siria e rafforzando la storica presenza russa imperniata sulla base di Tartus, Mosca ha dimostrato di saper sfruttare i vuoti prodotti dalla strategia statunitense per segnalare agli stessi Stati Uniti e al mondo che non è disposta a mollare al-Asad e che non è possibile escluderla dai giochi in cui si determineranno i destini della Siria ed i futuri assetti mediorientali. Come dimostra il recente vertice di Antalya Putin ha saputo volgere a proprio vantaggio un problema che resta comunque irrisolto: la divisione dell’Occidente tra Europa e Stati Uniti e anche dentro l’Unione Europea. Divisioni che non riguardano solo l’uso della forza militare, ma anche la cosiddetta soluzione politica. Ovvero l’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Arabia Saudita, della Turchia e dell’Iran per spingerli ad attenuare il loro scontro per l’egemonia del Levante da cui la guerra civile siriana è stata alimentata. Se l’occidente vorrà davvero allearsi con Putin nella guerra contro l’IS il prezzo da pagare sarà salato. Lo si è capito quando nelle settimane scorse il premier francese Manuel Valls ha pubblicamene chiesto la revoca delle sanzioni internazionali che dovrebbero essere rinnovate il prossimo 31 gennaio. E se ne è avuta un’ulteriore riprova con l’annuncio da parte dell’ambasciatore iraniano a Mosca dell’avvio delle procedure per la fornitura a Teheran dei sistemi antimissile russi S-300. Il contratto era stato stipulato nel 2007 e poi annullato nel 2010, a causa delle sanzioni internazionali che impedivano all’Iran di acquistare questi sistemi militari. Appare evidente che sul destino di Bashar al-Asad le divergenze delle cancellerie occidentali con Mosca e Teheran siano difficilmente aggirabili e vadano ben oltre la sorte del presidente siriano. Come dimostra l’ambiguità della risoluzione approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu lo scorso 19 dicembre.
La presenza aereonavale di Mosca ha però una pluralità di significati che in questa sede non è possibile ignorare. Oltre a fornire appoggio aereo alle operazioni di terra, l’intervento russo ha anticipato e nei fatti ribaltato la possibilità avanzata dalle potenze regionali sunnite (e appoggiata dagli Usa) di creare una no-fly zone. I cruise (Kalibr SS-N-30) sparati a più riprese dalle acque del Mar Caspio, a 1500 km di distanza, contro obiettivi in mano alle forze ribelli, sono stati evidentemente un “parlare a nuora perché suocera intendesse”. Questi missili, con gittata di 2500 km e capacità nucleare, rappresentano infatti il fiore all’occhiello dell’arsenale russo, al pari delle corvette Buyan da cui sono partiti. Attraversando i cieli iraniani e iracheni, prima di giungere in Siria, queste salve di missili hanno segnalato l’estensione dell’influenza russa anche al teatro iracheno. Proprio a Baghdad i servizi militari di Mosca hanno costituito un centro di coordinamento di intelligence con gli omologhi iracheni, iraniani e siriani, formalmente ai fini della guerra all’IS. Mentre un secondo comando, secondo fonti del Cremlino, potrebbe essere costituito a breve in un altro paese della regione. Un riferimento non troppo velato all’Egitto del generale al-Sisi che in una recente occasione ha espresso chiaramente il sostegno all’operazione militare di Putin. L’abbattimento del bombardiere russo da parte della contraerea turca non ha fatto altro che accelerare il processo già in corso. Per tutta risposta, secondo quanto riportato dal quotidiano kuwaitiano “Al-Rai”, Mosca starebbe schierando truppe speciali lungo la frontiera siro-turca allo scopo di sigillare i corridoi terrestri che attraverso i posti di controllo di Aazaz e Bab al-Salamah consentono ai camion provenienti dalla Turchia di portare in Siria armi, munizioni e rifornimenti ai gruppi ribelli che si battono contro il governo di al-Asad. L’intelligence russa avrebbe infatti individuato in questo passaggio una delle più importanti rotte di consegna dei missili anti-tank “Tow”. Altre truppe speciali russe sarebbero invece per essere dislocate nei pressi della base aerea di Al-Shayrat, segno, secondo il quotidiano kuwaitiano, della volontà di rafforzare la presenza dell’aviazione russa che al momento dispone di circa 75 aerei nella base di Hmeimim, adiacente all’aeroporto di Latakia. La realizzazione di una nuova base aerea a circa 25 chilometri da Homs sembrerebbe essere la premessa di un’offensiva di terra verso est dopo l’accordo raggiunto con i ribelli che abbandoneranno la città sede dell’omonimo governatorato. E tutto questo mentre dalla fine di novembre gli aerei russi vengono fatti volare con missili aria-aria di corta e media gittata rafforzando la “bolla aerea” sopra la Siria.
Si tratta di segnali importanti sull’irreversibile internazionalizzazione del conflitto che già da tempo avevano provocato ripercussioni sui progetti energetici condivisi tra i Turchia e Russia. A farne le spese per primo è stato il progetto del Turkish Stream, un gasdotto che avrebbe dovuto collegare la Russia con la Turchia passando per il Mar Nero e che era stato annunciato a sorpresa da Putin nel 2014, durante una visita in Turchia. I lavori avrebbero dovuto iniziare a partire dal giugno di quest’anno, ma Ankara non ha mai approvato neppure gli accordi intergovernativi necessari per l’opera e l’italiana Saipem, che aveva già iniziato la posa dei tubi nella tratta sottomarina del gasdotto, si è vista rescindere da un giorno all’altro il contratto da Gazprom. A tale proposito occorre tener presente che la Russia è il secondo partner commerciale di Ankara, con un interscambio pari a 31 miliardi di dollari nel 2014 e a 18,1 miliardi di dollari per i primi nove mesi del 2015. Considerando anche il settore dei servizi la cifra sale a 44 miliardi di dollari. Solo due mesi fa le ambizioni erano ben altre: in visita a Mosca il 23 settembre scorso, pochi giorni prima dell’avvio della campagna di bombardamenti russa, il presidente turco Erdoğan auspicava che entro il 2023 il commercio bilaterale raggiungesse i 100 miliardi di dollari. Queste ambizioni sono ora vittime della guerra in Siria, anche se le sanzioni russe, almeno in questa prima fase, sono meno rigide di quanto ci si aspettasse. Dal 1° gennaio le aziende russe non potranno più assumere lavoratori turchi e molte imprese di Ankara subiranno limitazioni. Inoltre, dall’inizio del 2016, le agenzie di viaggio russe dovranno smettere di vendere viaggi in Turchia e saranno vietati i voli charter. Anche qui il Cremlino ha infierito duramente perché il Paese è una delle mete preferite dai russi e l’anno scorso i visitatori sono stati oltre tre milioni. Nell’elenco delle sanzioni c’è anche la sospensione degli effetti del trattato bilaterale che aboliva il regime dei visti. Limitazioni sono in arrivo anche per i servizi, in particolare per i trasporti, che verranno sottoposti a controlli approfonditi per ragioni di “sicurezza”. Nessuna sanzione invece sul fronte energetico dove Ankara e Mosca sono legate a doppio filo. Mosca è il principale fornitore di gas della Turchia che importa dai russi il 60% del fabbisogno annuo. E la Turchia, dopo la Germania, è il secondo cliente di Mosca. Senza contare il passaggio al nucleare che Ankara ha affidato in buona parte ai russi: nel 2013 la Turchia ha commissionato alla russa Rosatom la sua prima centrale (ad Akkuyu), quattro reattori e un progetto da 20 miliardi di dollari.
Arabia Saudita e Qatar
Il 2 ottobre del 2014, intervenendo al John F. Kennedy Jr Forum presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Harvard, il vicepresidente americano Joe Biden espose con inusuale franchezza l’opinione del governo americano sugli alleati nella regione e in Siria, sostenendo che l’Arabia Saudita, la Turchia e gli Emirati Arabi: erano decisi a liberarsi di al-Asad e a far esplodere una guerra per procura tra sunniti e sciiti. Cos’hanno fatto allora? Hanno elargito centinaia di milioni di dollari e decine di migliaia di tonnellate di armi a chiunque sostenesse di voler combattere contro al-Asad. Peccato però che tra questi ci fossero anche al-Nuṣra, al-Qāʿida e gli estremisti jihadisti giunti da altri paesi. Considerazioni condivise anche dal ministro tedesco per la Cooperazione e lo Sviluppo, Gerd Müller, che nell’agosto dello stesso anno aveva dichiarato: dovete domandarvi chi sta armando e finanziando le truppe dell’Isis. La parola chiave è Qatar. Del resto era stato lo stesso principe Saud Feisal a chiarire il concetto al segretario di Stato Usa John Kerry: Daesh è la nostra risposta sunnita al vostro appoggio agli sciiti dopo la caduta di Saddam.
Qatar
Questo piccolo ma ricchissimo emirato del Golfo si è contraddistinto per un crescente attivismo politico-regionale a partire dal 1995, quando salì al potere l’emiro Hamad bin Khalifa al-Thani. Schiacciato tra due vicini ingombranti (l’Iran e l’Arabia Saudita) nei primi anni Duemila il Qatar aveva mostrato una notevole scaltrezza politica associata alla capacità di bilanciare le proprie alleanze, grazie anche alla liquidità derivatagli dallo sfruttamento del giacimento di gas condensato chiamato South Pars/North Dome. Uno dei più grandi nodi energetici ed economici del pianeta con riserve stimate di 51 trilioni di metri cubi di gas. Il patrimonio colossale degli al-Thani è segnato però da un vulnus preciso che si chiama Iran. Questo perché più di un terzo del giacimento sottomarino si trova in acque territoriali iraniane. La South Pars (così si chiama il lato persiano del giacimento) a differenza della controparte qatariota non è ancora del tutto sviluppato. L’ambizione del Qatar è quella di realizzare una serie di gasdotti verso l’Europa con sbocco in Turchia alternativi a quello che dovrebbe attraversare Iran, Iraq e Siria. In questa veste il Qatar appare in concorrenza diretta sia con l’Iran (in quanto produttore), che con la Siria (in quanto destinazione), e a un grado inferiore con l’Iraq (in quanto paese di transito). Dopo lo scoppio delle primavere araba Doha ha tuttavia puntato sempre più apertamente sull’ascesa dei movimenti islamici, e soprattutto sui Fratelli Musulmani, rompendo il proprio rapporto con Damasco e incrinando quello con le alte petromonarchie del Golfo che tradizionalmente nutrono una profonda diffidenza nei confronti di questo movimento. Dopo la vittoria dei Fratelli Musulmani in Egitto e del partito al-Nahda in Tunisia, il Qatar ha visto nell’alleanza con la Fratellanza e più in generale coi movimenti islamici la possibilità di accrescere la propria influenza politica ed economica in Medio Oriente. Doha ha dunque deciso di appoggiare economicamente l’Egitto di Morsi, attraverso una vigorosa politica di prestiti, e militarmente la ribellione libica contro Gheddafi prima, e quella siriana contro al-Asad dopo. Così come per la Turchia, la deposizione di Morsi in Egitto e le disfatte subite dai “ribelli siriani” hanno ridimensionato la proiezione regionale dell’Emirato che però non ha rinunciato ad avere un peso nei futuri assetti dell’area. Nel 2009, in un messaggio classificato “segreto” ma reso pubblico da Wikileaks, il dipartimento di Stato statunitense definiva il grado di collaborazione del Qatar nell’anti-terrorismo “il più basso della regione”. Nell’ottobre dell’anno scorso, l’allora sottosegretario al Tesoro Usa David Cohen indicò il Qatar come uno stato “permissivo” in materia di finanziamento al terrorismo. Nell’elenco dei “agevolatori finanziari del terrorismo” redatto da Washington si trovano ben 16 qatarioti, e cinque cittadini di altri Paesi arabi che operano in Qatar. Tra questi ultimi spicca il tunisino Tariq Al-Awni Al-Harzi, che il Tesoro americano definisce “un funzionario di alto livello di Isis (…) responsabile del reclutamento di cittadini nordafricani ed europei (…) il quale, nel settembre del 2013, ha fatto in modo che lo Stato islamico ricevesse due milioni di dollari da un finanziatore di base in Qatar con istruzioni specifiche di usare quella somma in operazioni militari”.
Arabia Saudita
La politica adottata dall’Arabia Saudita nei confronti della guerra civile siriana merita anch’essa un’attenzione particolare. Per Riyāḍ, tradizionalmente ostile al cambiamento e favorevole al mantenimento dello status quo, le “primavere arabe” hanno rappresentato un trauma. Soprattutto quando l’instabilità cominciò a lambire i propri confini con le rivolte in Bahrein e nello Yemen. Inoltre la monarchia saudita è sempre stata legata a doppio filo con gli Stati Uniti ed ha sempre guardato con timore all’emergere di qualsiasi alternativa regionale potesse mettere in secondo piano l’alleanza di Washington con Riyāḍ. La prospettiva di un nuovo fronte “moderato” guidato dalla Turchia e l’accordo sul nucleare conl’Iran ha sempre spaventato la casa saudita. Lo scoppio della rivolta siriana ha dunque permesso alla famiglia saudita di passare al contrattacco. Dopo aver assistito nel 2005 alla nascita in Iraq del primo governo sciita in un paese arabo dal XII secolo, e dopo aver dovuto subire l’ascesa di Hezbollah in Libano, l’Arabia Saudita ha visto nella ribellione siriana l’opportunità di rovesciare il regime alauita di al-Asad infliggendo un duro colpo all’Iran e guadagnando influenza in Libano. A partire dall’estate del 2013 i sauditi hanno sostituito il Qatar in cima all’elenco dei finanziatori dei ribelli siriani grazie anche all’intermediazione di istituti finanziari come l’Al Rajhi Bank. Tuttavia il sostegno è andato ben oltre al semplice incremento degli stanziamenti: il numero di combattenti provenienti dall’Arabia Saudita ha infatti superato quello di ogni altro paese. Un fenomeno, questo, che alla lunga potrebbe rivelarsi un boomerang per la stabilità del regno, ma che si lega a uno degli sviluppi più pericolosi della nostra epoca, ovvero la “wahabbizzazione” dell’islam sunnita tradizionale. Come ha denunciato Ali Allawi, storico ed esperto del settarismo, in un paese dopo l’altro le comunità sunnite “hanno adottato elementi del wahhabismo che in origine non facevano parte del loro canone”. Il prevalere del wahhabismo dipende ovviamente dal peso politico ed economico dell’Arabia Saudita. Riyāḍ sfrutta l’intenso proselitismo delle sue opere di carità wahhabite che negli ultimi trent’anni hanno costruito ai quattro angoli del pianeta più di 1500 moschee, 210 centri musulmani, 202 collegi islamici e 2 mila madrase, spedendovi oltre 4 mila missionari. Arrivati a questo punto ci si potrebbe chiedere con un pizzico di ingenuità perché questa complicità diretta con il “terrorismo islamico” da parte delle petromonarchie viene accettata dagli occidentali.
Nel 2009, a otto anni dall’attentato del 11 settembre, l’allora Segretario si Stato Usa, Hillary Clinton, in un cablogramma rivelato da Wikileaks, lamentava il fatto che la fonte di finanziamento principale dei gruppo terroristi sunniti fosse costituita da donatori sauditi. La risposta al quesito sta nei miliardi di petrodollari che le monarchie del Golfo hanno dirottato fin dalla crisi petrolifera dei primi anni Settanta verso i mercati finanziari statunitensi e nella centralità che in questo modo è stata conferita al dollaro del sistema monetario internazionale dopo la rottura unilaterale degli accordi di Bretton Woods e il tramonto del “gold dollar standard”. Alla luce di queste cifre si spiega l’atteggiamento americano nei confronti del Califfato e dei jihadisti siriani sponsorizzati dalle monarchie del Golfo. La Saudi Connection, come la definisce Alberto Negri: è soprattutto il rapporto ombelicale che da 70 anni lega Washington a Riad. L’Arabia saudita, il più oscurantista degli stati islamic