Consigli per gli acquisti: Dopo la guerra, di Hervé Le Corre
Dopo la guerra talvolta la guerra continua. Silenziosa, invisibile. Il passato ti si presenta alla porta con la brutta faccia di uno sporco poliziotto. Anche i morti ritornano. Non sempre quelli che ti auguravi di rivedere.
Parigi, 17 ottobre 1961; l’anniversario è caduto qualche giorno fa. Una manifestazione dei sostenitori del Fronte nazionale di liberazione algerino, non autorizzata. Vi partecipano circa 30mila persone. La polizia interveniente, pesantemente: i morti non si contarono a decine, ma a centinaia, tra quelli direttamente colpiti e quelli gettati ad affogare nella Senna. Almeno 200 sono, infatti, i manifestanti uccisi in quella giornata, anche se lo stato francese ne riconosce «solo» una quarantina. Un massacro gigantesco, difficilmente immaginabile per qualsiasi militante politico: si esce in insieme, si manifesta, e duecento di noi non tornano a casa. Una cifra che quasi fa impallidire la sparizione dei 43 studenti messicani di Ayotzinapa dell’anno scorso.
Parigi, dicevamo, 17 ottobre 1961, un massacro volontariamente fatto passare sotto silenzio: un problema nella coscienza dei francesi pari a quello costituito dalla guerra d’Algeria, uno di quegli eventi storici sul quale ancora non è stato scritto un grande romanzo anche se le sue tracce sono presenti in più o meno tutti i romanzi francesi, soprattutto noir. Il prefetto di polizia di Parigi che guidava la Sûreté nationale in quell’occasione era Maurice Papon, principale collaboratore del prefetto di Bordeaux Maurice Sabatier durante la Repubblica di Vichy, il regime collaborazionista instaurato nella Francia centromeridionale, non direttamente occupata dai tedeschi, durante la Seconda guerra mondiale. Papon fu responsabile, tra l’altro, della deportazione di oltre 1.500 ebrei – 200, tra essi, i bambini – tra il 1942 e il 1944. Sfuggito all’epurazione, Papon rimase ai vertici dello Stato nel dopoguerra, fino a diventare deputato poi ministro del Bilancio, durante la presidenza del repubblicano Giscard d’Estaing. Sotto De Gaulle, fu nominato capo della polizia di Parigi, dove, in piena guerra d’Algeria, fu responsabile di due massacri: quello dell’ottobre 1961 e quello dell’8 febbraio 1962, quando nove manifestanti comunisti anti-Oas (l’organizzazione terrorista fascista che si opponeva all’indipendenza algerina e che il giorno precedente aveva condotto alcuni attentati a Parigi) furono bastonati e uccisi dai poliziotti nella stazione di Charonne.
Solo nel 1997, Papon comparve davanti alla Corte d’Assise di Bordeaux, accusato di crimini contro l’umanità compiuti durante Vichy (leggi): egli, considerato non solo uno zelante esecutore degli ordini nazisti ma soprattutto come uno degli esponenti dello Stato francese responsabile nel genocidio degli ebrei, disse a sua «discolpa» che «quando si tratta di eseguire un ordine del governo, non sono ammessi problemi di coscienza». Papon fu infine condannato a dieci anni di reclusione: fuggito in Svizzera, fu arrestato, estradato e condotto in carcere.
È proprio nella Bordeaux dei tardi anni ’50 che si svolge la vicenda narrata in Dopo la guerra (E/O, 18 euro, 515 pagine), il nuovo noir di Hervé Le Corre. Una Bordeaux in cui l’eco della guerra e del regime collaborazionista di cui Papon fu tra i massimi esponenti non si era ancora spenta. Nella pagine del romanzo vediamo comparire, per primo, il commissario Albert Darlac, uno di quei poliziotti per i quali è impossibile provare simpatia: sadico torturatore, avvezzo a fermi extra-legali, violento verso la moglie, che considera una «puttana da crucchi» e umilia in ogni modo, attratto sessualmente dalla tredicenne figlia di lei e di un soldato nazista. Il commissario Darlac, che Le Corre in un’intervista definisce «un bastardo integrale, violento; un fascista viscerale per cui conta solo la propria pelle, il profitto che ricava dal suo lavoro, il piacere immediato. Uno che sta sempre dalla parte dei vincitori, del potere, dei soldi». Il commissario Darlac, uno che durante il regime di Vichy si era arricchito collaborando con i nazisti, denunciando alle autorità gli ebrei che conosceva, appropriandosi di loro beni e delle loro ricchezze. Come tanti altri poliziotti, è uno di quei «collaborazionisti già riciclati, autentici bastardi sui quali in seguito l’epurazione passerà come una nuvoletta insignificante, un’ombra: falsi partigiani, poliziotti, prefetti, capi di gabinetto che hanno organizzato le retate, controfirmando le richieste di arresto, torturato a più non posso, sorpassato e anticipato gli ordini dei crucchi, ma che nel ’43, sentendo girare il vento, si sono inventati atti di coraggio e fabbricati alibi, hanno giudiziosamente salvato qualche ebreo e conservato traccia di quell’eroismo in modo che al momento giusto, quando i tribunali si fossero riuniti e i plotoni d’esecuzione schierati, gli opportunisti sarebbero venuti a testimoniare in loro favore» (pp. 63-4). È uno di quei poliziotti di cui era difficile raccontare «l’infamia […]: dopo aver rastrellato gli ebrei e braccato i partigiani al servizio di Pétain e della Gestapo, di colpo si erano sentiti l’anima repubblicana e affollavano i corridoi della prefettura in manica di camicia, con la fascia tricolore al braccio, per offrire i propri servigi agli stessi che per quattro anno avevano perseguitato» (p. 122). Le persone più vicine a Darlac iniziano a essere minacciate e uccise, un pericolo che non può che venire dal passato: e così emerge in lui «l’impressione che la guerra sia ricominciata» (p. 284).
Poi c’è Daniel, giovane apprendista meccanico, i cui genitori sono morti nel campo di concentramento di Auschwitz: lo avevano lanciato su un tetto quando la polizia collaborazionista, dopo una denuncia, aveva bussato alla loro porta. Daniel, cresciuto in una famiglia adottiva comunista, vede i suoi amici essere richiamati alle armi e partire – o cercare il modo per non farlo – per la guerra imperialista che la Francia sta combattendo in Algeria: una guerra di cui «si dice. Si racconta. Si crede di sapere. Fioccano parole. Pattugliamenti, imboscate, rappresaglie, massacri, mutilazioni. Tutti conoscevano un morto o conoscono qualcuno che piange un figlio o un fratello e maledice i ministri e comincia a odiare quel popolo di assassini pronti a sgozzare i loro ragazzi appena sono a portata di coltello» (p. 28). Una guerra che «sta rimodellando il popolo francese intorno a un nemico comune circoscritto da tutto un vocabolario assassino: levantino, mammalucco, bicot, crouille, raton… . Un nemico subdolo, certo, ma solo, povero e debole. Non come i robusti e ben armati crucchi, che ispiravano timore e rispetto. Stronzi, ma assolutamente diretti. Ai francesi non piacciono gli avversari potenti: vogliono subito farci la pace credendosi furbi» (pp. 64-5). Contro il parere di tutte le persone a lui vicine, Daniel aspetta con ansia il momento della partenza, perché in guerra vuole cercare se stesso. Parte e la guerra all’inizio gli piace: ma poi si fa ogni giorno più insopportabile.
Infine c’è un uomo, che dice di se stesso che «un giorno è morto». È morto metaforicamente, perché in realtà si è salvato sotto il cadavere di un compagno di prigionia. Il suo destino è ormai, però, quella dell’invisibilità sociale e del perseguimento della vendetta. Un unico intento: «Senza neppure essere riconosciuto sarei scivolato tra boia tranquilli e traditori smemorati, e loro non avrebbero saputo chi era la persona che veniva a ucciderli né da quale inferno era sbucata l’ombra che li guardava sorridendo» (p. 40).
Sono questi i tre protagonisti del romanzo: fiction certo, ma anche riflessione sul rapporto tra storia e memoria e su quello tra giustizia e vendetta. Un romanzo che contiene tutto il portato della «guerra civile» in Francia, quella che viene chiamata la «guerra franco-francese». Ma anche quello del continuo contesto bellico in cui il paese d’oltralpe si venne a trovare per oltre due decenni: la seconda guerra mondiale, poi la guerra d’Indocina, poi quella d’Algeria. Il titolo e i continui richiami tra seconda guerra mondiale e Algeria, dunque, non possono che contenere una nota paradossale: la guerra è davvero finita? Quando si può legittimamente dire «dopo la guerra»?
I personaggi sono numerosi, le vicende intrigate, ma è la guerra la vera protagonista. La guerra, e quel senso di paura che chi la visse ancora portava con sé. La guerra, l’incapacità dei reduci dai campi di concentramento di raccontare la propria esperienza e il timore di non essere ascoltati: «La gente ha voglia di dimenticare tutta quella merda, tanto più che stanno mandando i loro figli in Algeria a farsi sbudellare dagli arabi. Hanno ben altri pensieri che non dare ascolto alle tristi vicende del marito adultero di un’ebrea» (p. 179). La guerra, quella sporca d’Algeria, fatta di lunghe attese, di racconti sulle presunte crudeltà dei «fellaga» che eccitano gli animi («E tutti i nostri compagni con i coglioni in bocca e gli occhi sfondati? Che bisogno hanno di fare cose del genere? E saremmo noi i criminali?») e di rare voci fuori dal coro («Perché, i francesi? Cosa abbiamo fatto noi di tanto meglio da quando siamo qua? I coloni li sfruttano e noi veniamo a fare la guerra perché loro si ribellano. Appicchiamo il fuoco ai villaggi, torturiamo, bombardiamo. Anche il nostro è un massacro», p. 215), di soldati impazziti per la «muta guerra quotidiana che imbarbarisce» (p. 384), di imboscate e battaglie improvvise e mortali, di dilemmi morali («Ascolta, io non combatto contro questa gente. Al loro posto faremmo la stessa cosa. L’abbiamo fatto, durante la Resistenza», p. 314). E poi i morti, i morti che in guerra si assomigliano tutti. I morti e le vittime civili dei massacri che l’esercito francese compie nei villaggi algerini: stupri, incendi, violenze e omicidi sono il volto che mostrano i soldati alla popolazione algerina.
La nota che fa da sottofondo al volume è l’ancora forte incapacità dei francesi a fare i conti con la repubblica collaborazionista di Vichy, soprattutto dopo che i più recenti studi hanno delineato i caratteri di autonomia del regime di Pétain e del suo progetto di Révolution Nationale rispetto ai nazisti, ponendo così l’accento sulle responsabilità francesi.
Si tratta di una vicenda strettamente legata ai limiti dell’epurazione in Francia. Le Corti di giustizia giudicarono circa 55mila persone, con 6.763 condanne a morte di cui 767 eseguite, 13.339 condanne ai lavori forzati, 2.044 pene di reclusione criminale, 22.883 imprigionamenti. I tribunali militari eseguirono 769 condanne a morte. L’Alta corte trattò 108 casi, con 18 pene di morte (di cui 3 eseguite, 5 commutate – tra cui Pétain – e 10 in contumacia), 14 imprigionamenti, 8 condanne ai lavori forzati e 15 pene di degradazione nazionale. I morti accertati furono, in totale, circa 10.500, di cui 8.000-9.000 in seguito a esecuzioni extragiudiziarie e 1.500-1.600 pene capitali.
Come ha scritto la storica Simona Salustri in un recente contributo,
se ci fermassimo a questi numeri, confrontandoli anche con quelli di altri paesi, potremmo dire che l’epurazione in Francia ha portato a termine il proprio compito […]. In realtà il processo di epurazione in Francia ha portato a risultati tangibili, ma è stato al contempo contrassegnato da molti limiti e contraddizioni. […] La necessità di condurre velocemente i procedimenti penali per chiudere in fretta una fase di emergenza finì infatti per favorire gli accusati, soprattutto coloro i cui casi furono trattati per ultimi. […] La grazia, potere supremo attribuito al capo dello Stato (de Gaulle ricevette oltre 2.000 richieste accordando la grazia in quasi i due terzi dei casi), e le tre leggi di amnistia, votate dal parlamento nel 1947, nel 1951 e nel 1953, finirono per annullare progressivamente tutte quelle pene che avevano connotato la punizione del collaborazionismo […]. In Francia, come in Italia, le motivazioni dell’amnistia vanno ricercate anche nell’evoluzione politica del paese in rapporto all’inizio della guerra fredda. L’amnistia, nata con la finalità di ricucire lo strappo causato nella società dal collaborazionismo, si legò al processo di esclusione dalla politica nazionale del “partito straniero”, i comunisti, che in rappresentanza di un potere sovrannazionale minacciavano lo Stato francese. La riconciliazione nazionale attraverso l’amnistia era dunque funzionale anche al rafforzamento dello Stato in chiave internazionale e in funzione anticomunista.
La mancata epurazione, come evidenziato in Dopo la guerra, fu uno dei fattori che contribuirono alle difficoltà a fare i conti col passato collaborazionista, oscurato dalla mitologia gollista di una Francia unanime dietro la solitaria resistenza di De Gaulle, per il quale, come disse entrando vittoriosamente a Parigi nell’agosto del 1944, «Vichy è stata sempre, e rimane, nulla e non avvenuta». Ciò ha impedito un esame di coscienza dei francesi sul loro comportamento collettivo tra il 1940 e il 1945. Mitterrand stesso, che aveva cominciato la carriera politica con un breve passaggio a Vichy prima di unirsi alla resistenza, fu sempre contrario a riaprire quella pagina: anzi, divenuto dopo la liberazione ministro degli Interni, assunse come capo di gabinetto l’ex vice capo della polizia di Pétain e rimase sempre amico dell’ex segretario di Stato alla polizia di Vichy, notoriamente responsabile nell’organizzazione dell’epurazione e della deportazione degli ebrei. Per Mitterand, portare a giudizio gli ex funzionari di Pétain, avrebbe, come dichiarò, «turbato la riconciliazione nazionale».
In ciò, il caso francese è molto simile a quello italiano: in entrambi, il «passato che non passa» è sempre molto a riemergere, negli ultimi anni accompagnato da polemiche revisioniste sulle violenze presunte dei partigiani francesi. Il bel romanzo di Le Corre contribuisce invece a rimettere le storie al loro posto, entrando nel vivo del collaborazionismo francese e degli strascichi che hanno avuto per decenni le responsabilità dei vertici dello stato nel funzionamento del regime di Vichy.