La neolingua imperiale
Qualche giorno fa ci è capitato di ascoltare la speaker di una radio di movimento fare propria la richiesta dell’istituzione di una No-fly zone in Siria. Una parola d’ordine che gira ormai da tempo tra i sostenitori dei “ribelli” anti Assad, ma che ha ripreso vigore da quando i russi (su richiesta del governo siriano) sono intervenuti direttamente nell’area. Messa così la richiesta di bloccare il volo degli aerei da guerra sembrerebbe un atto di puro e semplice “buonsenso pacifista”, del resto chi ci legge non faticherà a convenire con noi sul fatto che le bombe che cadono dall’alto non sono mai “intelligenti” o “selettive”, a prescindere dal fatto che a sganciarle sia un F-16 o un Mig. I lettori più attenti ricorderanno però che in Libia, non più di 4 anni fa, si produsse qualcosa di molto simile. Ricorderanno, ad esempio, la maniera ossessiva con cui le immagini di un cimitero libico vennero spacciate come foto delle fosse comuni utilizzate da Gheddafi per liquidare i ribelli (vedi). E ricorderanno pure come, sull’onda dell’emozione per quei “crimini” (perpetrati sempre e solo dal Rais, ovviamente), settori consistenti dell’opinione pubblica mondiale e della sinistra occidentale si arruolarono nelle fila di chi chiedeva un intervento immediato per fermare il “genocidio”. Si trattò della messa in opera di quello che in altre sedi abbiamo chiamato il terrorismo dell’indignazione, ovvero il cannoneggiamento mediatico e ideologico a cui siamo sistematicamente sottoposti, che fa leva sul monopolio delle emozioni da parte delle classi dominanti e che si avvale di una vera e propria neolingua di orwelliana memoria. Una neolingua in cui “portare la pace” significa “fare la guerra”, in cui “diritti umani” si traduce in “neocolonialismo” e in cui “No-fly zone” sta ad indicare i “bombardamenti Nato”. Ciò che colpisce è che a far proprio questo vocabolario siano settori anche consistenti della sinistra. Ossia proprio quelli che per primi dovrebbero coltivare un pensiero critico e una visione d’insieme di quanto accade nel mondo. Per tornare all’esempio libico quella mobilitazione delle coscienze contribuì all’adozione, da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, della famigerata risoluzione 1973 con cui, di fatto, venne dato via libera all’intervento militare della Nato. Quella che doveva essere un’operazione di peacekeeping (altro termine della neolingua) che avrebbe dovuto concretizzarsi in una No-fly zone si rivelò essere fin da subito un’operazione di regime change (leggi colpo di stato) e i caccia della Nato divennero la forza aerea dei “ribelli”. Sulle magnifiche sorti e progressive di quell’intervento militare non ci dilunghiamo, anche perchè sono sotto gli occhi di tutti. Scriviamo questo però perché in questi giorni sembra essere passata un po’ in sordina una notizia che, se confermata, spiegherebbe molte cose; non ultima l’escalation dell’intervento russo e l’ulteriore internazionalizzazione del conflitto siriano. Ci riferiamo a quanto riportato dal Financial Times il 4 ottobre (leggi) secondo cui l’accelerazione dell’intervento militare russo sarebbe da collegare alla imminente realizzazione da parte di Stati uniti, Turchia e Giordania di una No-Fly zone su parte della Siria. Un progetto che, sempre a leggere quanto scrivono oltre Atlantico, sarebbe abortito proprio a causa dell’intervento russo. Bisogna dunque stare attenti a quel che si dice e si scrive, perché nella neolingua dell’imperialismo anche una parola d’ordine di “buonsenso pacifista” rischia di suonare come un invito alla guerra.
“…una volta che la Neolingua fosse stata definitivamente adottata, e l’Archelingua, per contro, dimenticata, un pensiero eretico (e cioè un pensiero in contrasto con i principi della “Società dello spettacolo”) sarebbe stato letteralmente impensabile, per quanto almeno il pensiero dipende dalle parole con cui è suscettibile di essere espresso.” (George Orwell, 1984)