Visioni Militant(i): Non essere cattivo, di Claudio Caligari

Visioni Militant(i): Non essere cattivo, di Claudio Caligari

 

Abbiamo grande stima di Claudio Caligari, e ancor di più ne proviamo per Valerio Mastandrea che si è sbattuto per produrre e distribuire l’ultimo film del regista recentemente scomparso. E’ per questo che siamo andati a vedere questo film con le giuste aspettative, quelle cioè di non pretendere un capolavoro ma lo sguardo di un autore che ha saputo raccontare bene una certa periferia romana “post-pasoliniana”, come l’avrebbe definita il regista stesso. Purtroppo non è possibile parlare del film senza prima aprire una parentesi su Amore tossico, perché Non essere cattivo è una continua autocitazione (e autocelebrazione, in fondo) del suo lavoro più famoso. Non un “sequel”, quanto una riproposizione aggiornata quindici anni dopo. Ebbene, Amore tossico è sicuramente un film significativo, una sorta di docu-fiction ante-litteram che ebbe il coraggio di denunciare il fenomeno dell’eroina a Roma nei primi anni Ottanta. Se socialmente e culturalmente il film continua ad avere una sua importanza (meritata, aggiungiamo), il livello filmico, per così dire, era senza ambizioni. In parte lasciato volutamente piatto accentuando così i toni documentaristici della storia narrata; in parte scadente nelle parti di fiction, dove “cede in un finale banalmente drammatico” e in cui la regia “vorrebbe essere distaccata ma è tanto piatta che rischia di essere voyeuristica” (Mereghetti 2004). Negli anni Duemila il film ha vissuto il suo momento di gloria, come molti altri lavori degli anni Settanta e Ottanta al tempo giudicati mediocri e successivamente rivalutati da una certa sottocultura tendente al kitch (pensiamo al fenomeno dei b-movie italiani riproposti come espressioni di un certo livello culturale dopo che Tarantino dichiarò il suo amore per il genere). Insomma col tempo, nella periferia romana, il film è divenuto un piccolo oggetto di culto, ma questo non lo trasforma automaticamente in un capolavoro (stessa sorte è capitata a Ultrà di Ricky Tognazzi: contestato dai romani dell’epoca, adorato da quelli odierni). Per di più, crediamo che non era neanche l’intenzione del regista stesso, che vedeva Amore tossico come proseguo narrativo di un disagio sociale che aveva già descritto in ben tre documentari tra il 1976 e il ’78. Questa premessa non sarebbe neanche necessaria, se non fosse che in Non essere cattivo Caligari sembra trattare retrospettivamente Amore tossico non come il lavoro che è stato, cioè un’efficace denuncia sociale, ma come quello in cui è stato trasformato in seguito, cioè un film cult. Da qui all’autocelebrazione il passo è breve e il regista purtroppo ci casca con tutte le scarpe. La storia è una fotocopia del film del 1983. Stessa l’ambientazione, quell’Ostia raffigurata come terra di nessuno dove si aggira un sottobosco di drogati (con gli stessi nomi: Cesare rimane il protagonista; stesse le facce e i personaggi, stesse le situazioni vissute che fanno pensare all’autoplagio più che all’autocitazione forzata) in perenne ricerca dello sballo per non pensare alle difficoltà quotidiane. Solo che mentre nel 1983 il fattore droga era direttamente legato alla disfatta politica di un decennio di mobilitazione, di sogni e di tragedie collettive riversate nelle sfera individuale dallo Stato-spacciatore, non si capisce questo 1995 (l’anno in cui è ambientato il film) fatto di pasticche e di eroina, se non si opera una contestualizzazione che nel film sembra mancare. Se la storia del 1983 segna la tragedia di una generazione, nel 1995 la storia raccontata sembrerebbe essere un fatto privato dei protagonisti del film.

Per chi ha presente Amore tossico, anche se non vede il film sa esattamente come la storia si sviluppa e finisce. Nello stesso identico modo, cioè. Salvo che se nel 1983 il regista ebbe la lucidità di non lasciare traccia di ottimismo, perchè intuiva che il decennio che si andava aprendo non portava con sè niente di positivo per quella generazione, qui invece cede al sentimentalismo lasciando aperta la porta dei sentimenti privati che in qualche modo sistemeranno tutto il casino in cui si trovano i protagonisti. Il problema è che il 1995 non sono i primi anni Ottanta. La differenza non sta nelle diverse tipologie di droghe – anche se pure in questo film alla fine il problema è l’eroina – ma nel contesto completamente differente. Questo, purtroppo, non riesce ad emergere, e tutto viene mascherato dalla romanità dei due protagonisti, che può piacere a qualche non romano ma non riesce a spiegare niente della condizione di disagio che si prova nelle periferie metropolitane e ad Ostia in particolare, emblema geografico del disagio sociale. Una “romanità” molto ben recitata dagli attori, ma che non riesce, ci sembra, a sollevare le sorti di un remake forzato, e dove la pur ottima recitazione non può competere con la naturalezza dei personaggi dell’originale. Con immutata stima verso il regista, un personaggio decisamente d’altri tempi, ci permettiamo allora di dire che il film non rende onore all’importanza che, in ogni caso, Claudio Caligari ha avuto nella cultura romana e italiana. E questo è un vero peccato, perché è oggi più che mai necessario continuare a descrivere e interpretare la sconfitta delle periferie romane, un tempo simbolo di emancipazione e oggi tristemente non-luoghi dell’emarginazione economica e culturale.