Il ruolo italiano nel caos libico
La vicenda libica, dalle prime manifestazioni contro Gheddafi ad oggi, dovrebbe rappresentare il paradigma del modus operandi delle potenze occidentali nei territori non subordinati ai propri interessi geopolitici. Ancor più della Siria, che ne ricalca per filo e per segno la dinamica, l’evoluzione e la sua probabile conclusione, con buona pace di quella sinistra imperiale che ancora oggi legittima ogni forma d’interferenza straniera negli affari interni di un paese (ex)sovrano. Un’interferenza sempre a senso unico, ovviamente: dal ricco verso il povero; dall’occidente verso l’oriente; dal neoliberismo verso forme sorpassate di produzione capitalistica da adeguare nel ritmo e nella qualità. Stupisce come l’espansione dello Stato islamico in Libia non venga immediatamente collegata all’ingerenza occidentale dal 2010 in avanti negli affari del paese, perché proprio da questa deriva, così come la formazione e l’espansionismo islamico nel Medioriente deriva dallo smembramento di determinati Stati sovrani (dall’Iraq alla Siria). Sembrerebbe un’ovvietà e in effetti lo è per gli analisti più informati, siano essi di destra o di sinistra, difensori o meno dello status quo imperiale.
Così Aspenia, la rivista dell’Aspen Institute:
“Il Califfato[…]approfitta dell’imbarazzante vuoto statuale causato dalle lente e contradditorie transizioni di Iraq, Siria e Libia e del palese fallimento delle Primavere arabe o del loro fragile equilibrio.”
Così Romano Prodi:
“L’Isis alle porte? La colpa è dell’Occidente. Situazione prevedibile”.
Così The Post International:
“Il governo iracheno stima che 17 dei 25 principali leader dell’Isis oggi attivi in Siria e Iraq siano stati detenuti nelle prigioni americane tra il 2004 e il 2011. “Il campo era l’ambiente ideale per pianificare – ha spiegato al Guardian il jihadista dell’Isis Abu Ahmed – e quando ci hanno liberato, è stato facile ritrovarsi: ci eravamo scambiati indirizzi e numeri di telefono scrivendoli sugli elastici delle mutande”. “Il 2003 fu un anno cruciale per il Medio Oriente: cambiarono molti equilibri regionali a causa dell’invasione americana dell’Iraq e della caduta del regime di Saddam Hussein. Gli americani, subito dopo la caduta del regime, hanno compiuto un’operazione devastante per l’integrità statale dell’Iraq: sciogliere l’esercito iracheno, uno tra i più forti e coesi del Medio Oriente, nonostante la penetrazione autoritaria del regime”, ci ha spiegato la ricercatrice italiana Marina Calculli della American University of Beirut, in Libano, e specialista in relazioni internazionali del Medio Oriente.
Così La Stampa:
“Il fondamentalismo è foraggiato con armi e soldi dall’Occidente.”
Non proseguiamo oltre. Tutti gli organi e i rappresentanti neoliberisti più conseguenti o meno impegnati nella chiacchiericcio politico quotidiano riconoscono il ruolo occidentale quale matrice della degenerazione islamica, che è allo stesso tempo prodotto dell’ingerenza atlantica ed estremo rifiuto, anche popolare, verso quel tipo di subordinazione imposta. Che lo Stato islamico sia allora un prodotto occidentale non dovrebbe essere una notizia: viene riconosciuto anche da chi dovrebbe fare di tutto per confondere le acque. E’ ancora sulla vicenda libica che però sorge la contraddizione, una contraddizione tutta interna al patto atlantico e che però vede coinvolta anche una parte della sinistra incapace di valutare gli eventi nella loro dimensione complessiva. Di fronte al rafforzamento dell’Is alle porte dell’Europa, l’unica soluzione pensabile è quella di tornare ad intervenire militarmente in quei territori. E la guida di queste operazioni non spetterebbe a qualche attore “super-partes”, magari africano, ma al paese coinvolto nella precedente dominazione coloniale: l’Italia. La situazione è evidentemente paradossale: lo Stato islamico è il prodotto dell’ingerenza occidentale, come riconosciuto dagli stessi opinion makers da entrambe le sponde dell’Atlantico, ma l’unica soluzione che viene proposta è quella di tornare a controllare militarmente un paese terzo, non europeo e non occidentale. Che in questo paradosso ci finiscano le politiche imperialiste è perfettamente comprensibile; che tale dinamica provochi l’afonia delle sinistre, un po’ meno. Una eventuale ulteriore guerra in Libia non solo non avrebbe alcuna speranza di successo (se non il controllo burocratico repressivo del territorio, come in Iraq, tale da garantire lo sfruttamento dei pozzi petroliferi ma non la pacificazione e il ritorno ad una sovranità statuale), ma provocherebbe la generalizzazione del problema islamico in tutta l’area coinvolta, esattamente come in questo quindicennio dall’invasione dell’Afghanistan in avanti. E’ per questo che la vicenda Is è un fatto complesso e contraddittorio, da maneggiare con estrema cura. Riconoscerlo come male capitalista instillato nei territori arabi è giusto ma parziale, perché la soluzione del problema è direttamente legata all’autodeterminazione delle popolazioni arabe, non dalla normalizzazione di quei territori in funzione subordinata agli interessi occidentali (in altre parole, definire l’Is il male assoluto senza problematizzare la questione rischia di avallare le politiche occidentali d’invasione, lette in ogni caso come “male minore”). L’intervento occidentale in Libia è parte del problema Is, non una sua eventuale soluzione. Così come è stato parte del problema Is l’appoggio economico, politico e militare all’abbattimento del governo Gheddafi, situazione questa ricalcata per quanto riguarda la vicenda siriana. Ed è per questo che la guerra in Libia dev’essere rifiutata senza se e senza ma, soprattutto senza cadere nel tranello ideologico di chi si trova costretto a scegliere tra i droni Nato e i tagliatori di gola islamici. Un decennio abbondante d’esperienza dovrebbe dimostrare senza timore di smentita che le due cose si sovrappongono, sono l’una il risultato dell’altra, causa ed effetto che ciclicamente si scambiano i ruoli. E la soluzione alle ferite prodotte dalla Nato non può avvenire dallo stesso Patto atlantico, ma contro di esso, rifiutando lo schema di dominio che ogni volta impone la scelta tra autoritarismo e neoliberismo.