La protesta dei lavoratori Atac, la creazione del capro espiatorio e la strada verso la privatizzazione del trasporto pubblico
Un mese fa, in un invito alla discussione collettiva sulla giunta Marino e la situazione che si sta determinando a Roma (leggi), scrivevamo che il sistema di malaffare emerso con l’inchiesta di Mafia capitale – ma da anni intuito da tutti i romani – era il prodotto proprio di un galoppante processo di privatizzazione, che ha portato il Comune a esternalizzare gran parte dei suoi servizi essenziali e a dar vita a una guerra per gli appalti di cui oggi si intravede il risultato. Trascorso meno di un mese, sul fronte delle privatizzazioni la situazione è, se possibile, peggiorata: sono, infatti, iniziate le danze che porteranno – prevedibilmente – alla privatizzazione di Atac, la società di proprietà comunale concessionaria del trasporto pubblico nel comune di Roma in cui sono occupati circa 12mila lavoratori (di cui gli autisti sono circa 5.800). Si tratta, evidentemente, di una delle principali aziende nel tessuto produttivo romano: dietro la sua privatizzazione – anche tralasciando (e non è nostra intenzione farlo) ogni discorso sul diritto alla mobilità – si celano evidentemente degli interessi enormi.
Si è trattato di un mese difficile, per il trasporto pubblico romano. Anzi, difficilissimo. Per giustificare agli occhi dell’opinione pubblica l’imminente privatizzazione del trasporto pubblico e una prevedibile compressione dei diritti sindacali di tutti – esemplare, in questo senso, la contemporanea e insensata polemica contro l’assemblea sindacale dei lavoratori degli scavi di Pompei (leggi), come se il problema non fosse invece il totale abbandono a se stessa dell’area archeologica da parte dello stato –, infatti, si è dovuta montare una campagna mediatica senza esclusione di colpi contro i lavoratori dell’azienda municipalizzata, in mobilitazione – come vedremo – contro l’abolizione unilaterale, da parte dell’azienda, della contrattazione di secondo livello, che prevedeva un aumento dell’orario di lavoro a fronte di una diminuzione della retribuzione. Una decisione che provocherebbe l’opposizione di qualsiasi lavoratore.
I macchinisti Atac, però, sono stati accusati di non voler lavorare, di opporsi all’introduzione del badge elettronico per verificarne l’effettiva presenza sul luogo di lavoro, di lavorare meno ore dei loro colleghi di Milano e – udite, udite – di Napoli, la città più frequentemente portata ad esempio come habitat naturale dei lavoratori più lavativi del mondo. I precedenti delle campagne contro i lavoratori delle municipalizzate e degli enti locali romani, del resto, hanno una lunga tradizione e, anche in questo caso, tutti i quotidiani e i telegiornali, oltre che il solito reazionario romafaschifo, sono stati in prima linea in questo attacco contro i macchinisti Atac e contro le ragioni della loro mobilitazione, istigando indirettamente le aggressioni fisiche contro di loro che si sono registrate in tutto il periodo.
Il risultato è quasi scontato. Il 15 luglio, Marino è intervenuto con un video, affermando chiaramente che «nelle prossime ore dovrebbe arrivare la firma dell’accordo fra l’azienda Atac e i lavoratori, ma sento ancora resistenze al cambiamento. Che sia chiaro, il mio impegno è per migliorare il servizio per i romani. E per raggiungere questo obiettivo sono pronto ad aprire ai privati» (vedi). Del resto Marino non ha mai fatto mistero delle sue intenzioni: solo poco mesi fa, parlava di contatti con un imprenditore cinese pronto a investire in Atac (leggi). Ancora più chiare le dichiarazioni del sindaco di sabato 24 luglio, quando ha annunciato di aver deciso, insieme a Zingaretti, «che da oggi Comune-Regione-Atac si impegneranno a cercare un partner industriale mantenendo la maggioranza pubblica dell’azienda. In questo modo anticipiamo l’avvio di un processo nazionale che impone di non gestire più il servizio in house a partire dal 2019» (leggi e leggi). Marino non ha dato ulteriori dettagli sulla privatizzazione di Atac, prendendosi ulteriori dieci giorni per farlo. Ciò, quindi, avverrà prevedibilmente all’inizio di agosto, quando la maggior parte dei cittadini sarà in vacanza.
Intanto ha imbellettato le sue scelte azzerando i vertici dell’Atac e richiedendo all’assessore alla Mobilità e ai Trasporti Guido Improta di formalizzare le sue dimissioni, già annunciate da tempo. Si tratta, evidentemente, di uno stratagemma per fingere un ripulisti che farà da preludio alla privatizzazione. Come nuovo assessore, è stato scelto Stefano Esposito, il pasdaran dell’Alta Velocità in Val di Susa noto alle cronache per il costante impegno nel criminalizzare il movimento No-Tav – fece scalpore il suo tweet contro una militante che aveva subito molestie da parte della polizia: «Parte da Pisa per andare a fare la guerra allo Stato, prende giustamente, qualche manganellata e si inventa di essere stata molestata #bugia”» – e indagato per diffamazione nei confronti di quattro attivisti (leggi). Insomma, una nomina che non costituisce effettivamente una garanzia.
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Marino e la sua giunta non sono, ovviamente, gli unici responsabili e ideatori del processo di privatizzazione dei servizi pubblici cittadini. Tutt’altro. Come sosteniamo da tempo (leggi), anzi, negli ultimi anni si è assistito alla quasi totale perdita di peso e di funzioni – in una parola di sovranità – di parlamenti ed enti locali, con un progressivo spostamento verso entità sovranazionali di quote rilevanti dei suoi poteri.
In altre parole, Marino o un altro, alla luce di questi rapporti di forza tra le classi come si danno oggi, compirebbero gli stessi passi. Sia sufficiente pensare che nella nota lettera della Bce al governo italiano dell’estate 2011, si affermava testualmente che era «necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala». Si aggiungeva, poi, che «l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione». La tentata ristrutturazione di Atac, come vedremo nelle prossime righe, segue pedissequamente questo diktat.
Lo smantellamento dello Stato sociale, le estese privatizzazioni, l’aumento delle ore lavorative a fronte di una diminuzione di salari e diritti in tutte le categorie sono, del resto, le tendenze unitarie emerse negli ultimi anni in tutti i paesi capitalistici occidentali. I piani di privatizzazione imposti – negli ultimi anni e, in misura drammatica, nelle ultime settimane – alla Grecia non lasciano certo ben sperare circa il futuro. È impossibile, infatti, mantenere il pareggio di bilancio previsto dalle politiche europee se non attraverso le politiche di austerity, che abbattono la spesa per lo stato sociale (trasporti, sanità, istruzione, previdenza, ecc.), e la privatizzazione dei servizi pubblici: si tratta dell’odierna versione della lotta di classe delle classi dirigenti contro le classi lavoratrici. Le parole sono importanti e non è un caso se, nel campo del welfare, non si parla più di «diritti» garantiti a tutti dallo Stato, ma di «servizi»: i cittadini sono diventati «clienti», che pagano per avere un servizio da una azienda che ne ricava un beneficio economico. Per quanto riguarda Atac, il passaggio ideologico è lampante: negli avvisi, negli annunci, sul sito, nei documenti ufficiali non si parla neanche più di «utenti», ma direttamente di «clienti».
Ovviamente il Pd – il partito che rappresenta ed esprime gli interessi del grande capitale finanziario nazionale e internazionale, sostenitore convinto della costituzione e del rafforzamento del polo imperialista europeo – è stato l’alfiere di tutte le politiche di privatizzazione degli ultimi anni. Una delle principali linee di intervento del governo Renzi è proprio quella delle privatizzazioni dei beni e dei servizi pubblici (leggi e leggi): chiaro, in questo senso, il contenuto del piano Cottarelli del 2014 intitolato Programma di razionalizzazione delle partecipate locali, che prevede la privatizzazione di 7mila di esse sulle 8mila esistenti. Per questi motivi, non bisogna credere alla finta contrapposizione tra Marino e Renzi all’interno del Pd: si tratta, evidentemente, del solito gioco del poliziotto buono e del poliziotto cattivo. Da capire chi interpreti l’uno, chi l’altro.
Dicevamo che anche un altro, al posto di Marino, sarebbe costretto a seguire gli stessi diktat europei: ma lui è l’attuale sindaco – colui che sta promuovendo la privatizzazione, impegnandosi in tutti i modi per giustificarla agli occhi dei cittadini – e, nel qui ed ora, la nostra battaglia politica deve rivolgersi contro la sua giunta.
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Veniamo, ora, ai fatti di Atac e all’accurata preparazione, negli ultimi mesi, della sua privatizzazione. Una preparazione che, visto i precedenti fallimentari, era necessaria. Un’identica cancellazione unilaterale di tutta la contrattazione di secondo livello era già stata tentata, infatti, nel 2011: i lavoratori avevano risposto con una mobilitazione spontanea presso il deposito di via Prenestina e il pericolo della cancellazione era stato momentaneamente sventato per il personale viaggiante (autisti e macchinisti). Anche questo tentativo era stato preceduto da una campagna stampa contro i lavoratori dell’Atac, accusati in quel frangente di parlare al cellulare e scrivere sms mentre erano alla guida: “la Repubblica” aveva invitato quotidianamente i suoi lettori a filmare gli autisti intenti in questa attività a mandare i video al giornale online, ma evidentemente la campagna non era stata abbastanza efficace.
Serviva qualcosa di più. Già il 19 aprile scorso, dunque, sul “Corriere della sera” è uscito un articolo in cui si parlava della «casta» dei macchinisti, categoria «odiata» dagli utenti, che percepirebbe stipendi fino a 3.000/4.500 euro al mese (l’articolo stesso dice che il 40% sarebbero costituiti da straordinari, ma probabilmente chi ripete questa cifra considererebbe più normale che essi non venissero pagati). Si scriveva, inoltre, che già al momento dell’apertura della metro B1 nel 2012 i macchinisti avevano protestato contro l’imposizione di turni a straordinario, rifiutando di condurre «i treni (dicevano che erano sporchi, o che puzzavano)» (in realtà, anche in questo caso, avevano rifiutato di condurre i treni in non perfette condizioni). Un articolo il cui contenuto (compresa la parte – a dir poco grottesca – dei treni rifiutati a causa del cattivo odore), dopo qualche mese, è diventato un mantra ripetuto da buona parte dei romani e si è fatto narrazione dominante.
A far deflagrare la situazione, l’abolizione unilaterale, il 26 giugno, da parte dell’Atac di tutta la contrattazione di secondo livello, dal 1962 al 2014 (leggi e leggi). In pratica, sono stati azzerati oltre cinquanta anni di lotta di classe, di scioperi, di contrattazione in Atac, attraverso cui i lavoratori avevano ottenuto miglioramenti salariali e lavorativi (ad esempio, le gratifiche in occasione dei giubilei): questo azzeramento, comportava una diminuzione fino al 40% sulle buste paga (500-600 euro per chi ne guadagna 1.300, per capirci) e un aumento dell’orario di lavoro da 37 a 39 ore settimanali.
Si trattava di un provvedimento di non poco conto, anche alla luce del fatto che gli autoferrotranvieri hanno costituito uno dei settori forti (a volte fortissimi) della classe operaia romana, insieme agli edili e, fino a un certo periodo, ai tipografi. Anche in periodi di bassa conflittualità sociale – come quello iniziato nella seconda metà degli anni ’50 –, infatti, gli autoferrotranvieri, grazie al potere contrattuale che gli deriva dal fatto di poter bloccare l’intera città, hanno proseguito le loro battaglie per i miglioramenti salariali e per la difesa dei loro diritti.
I lavoratori Atac – e in particolare i macchinisti – hanno subito reagito a questa decisione dell’azienda sospendendo gli straordinari e rimandando in deposito i convogli in condizioni di efficienza non perfette .
Le corse, così, sono cominciate irrimediabilmente a saltare, con tempi di attesa medi di 15 minuti sulla linea B e di 40 sulla Roma-Lido, mentre si iniziava a parlare di «sciopero bianco»: esso, chiamato in inglese «work to rule» («lavorare secondo le regole») è stato rappresentato come una forma illegittima di mobilitazione, quando invece il sabotaggio, il rifiuto del lavoro straordinario e l’applicazione alla lettera delle norme contrattuali costituiscono delle modalità di azione tradizionali del movimento operaio (basti pensare che fu l’arma della classe operaia durante la Repubblica di Salò, oltre che quella dei lavoratori nel corso dei 22 mesi continuativi di lotta per ottenere, tra il 1954 e il 1956, il conglobamento e la perequazione della contingenza). Nel caso specifico, prima di iniziare il servizio, infatti, i macchinisti e gli autisti sono tenuti a testare il corretto funzionamento dei mezzi e, da regolamento, se vengono ravvisati problemi, il convoglio deve tornare in deposito per essere riparato: la responsabilità penale di un eventuale incidente, del resto, sarebbe proprio dell’autoferrotranvieri. Come anche il “Messaggero” è stato costretto ad ammettere, «per dichiarare un mezzo “guasto” e rimandarlo in deposito basta una spia spenta in cabina o la suoneria di un allarme giudicata troppo bassa. I convogli di cui dispone la municipalizzata dei trasporti sono, in molti casi, degli anni ’90, trovare un difetto non è difficile» (leggi): in seguito a questa mobilitazione dei lavoratori, quindi, i treni rimandati in deposito sono aumentati del 200%.
I primi comunicati dell’Atac, il 1° e il 2 luglio, addebitavano tutte le colpe dei rallentamenti e delle corse perse ai macchinisti e alla loro opposizione all’introduzione del «badge» (definita come «l´estensione, in conformità con le previsioni di legge in materia di orario di lavoro, anche al personale operativo della sperimentazione di sistemi automatici di rilevazione delle presenze, peraltro già in uso per il restante personale dell´azienda»). In modo quasi paradossale, contestualmente Atac “ricordava” ai viaggiatori di essere «fortemente impegnata in un processo di cambiamento organizzativo e di normalizzazione volto a migliorare l´affidabilità nelle prestazioni di servizio erogate ed a conseguire livelli di efficienza e produttività in linea con gli standard dei migliori operatori del settore». Nessuno, a dire il vero, se ne era accorto.
Dopo pochi giorni faceva eco all’Atac, nell’attacco ai lavoratori, il sindaco Marino (leggi):
Oggi, ed è accaduto anche nelle giornate passate, c’è stato un servizio molto scadente sulle nostre metropolitane che ha danneggiato la vita delle romane, dei romani e dei tanti turisti che vengono nella nostra bella città ogni giorno. Io temo che si tratti di comportamenti individuali di singoli macchinisti, che danneggiano con il loro comportamento l’immagine dell’azienda e la vita delle persone. Questo, probabilmente, accade perché ho preteso che da poche settimane i macchinisti della metropolitana timbrino il cartellino in entrata e in uscita, così come fanno tutte le persone che nella nostra città vanno a lavoro la mattina e tornano a casa la sera. […] Noi abbiamo diritto di avere una metropolitana, anzi tre metropolitane, che funzionino come quelle di una capitale di un Paese del G7. Trovo anche inaccettabile che a Milano i macchinisti guidino 1100 ore l’anno, a Napoli 950 e a Roma solo poco più di 700 ore l’anno. Questo va cambiato, nell’interesse della città.
La questione non riguardava, come già spiegato, l’introduzione del badge, ma anche essa assume, in realtà, un aspetto preoccupante, come spiegato dal sindacato autorganizzato Cambia-menti (leggi). Ad esempio, sulla Roma –Lido,
usualmente il servizio della ferrovia più utilizzata dai romani in estate viene spesso assicurato solo quando il lavoratore aggiunge al proprio turno ordinario un secondo a straordinario. Da sempre la contabilizzazione del lavoro effettuato è stata realizzata mediante la rilevazione delle corse svolte dal singolo lavoratore nell’arco della giornata. Questo sistema assicurava la copertura dei due turni in un tempo compreso tra le 10 e le 12 ore. Con il sistema di attestazione della presenza introdotto da atac in questi giorni, la prestazione del singolo si misura in ore di presenza sul luogo di lavoro e non più in corse effettuate. Questo implicherebbe che per effettuare lo stesso numero di corse servirebbero dalle 13 alle 15 ore. Quindi stessa produttività in più tempo. Tempo di certo insostenibile perché lederebbe il giusto, ed obbligatorio per legge, recupero psicofisico del personale mettendo così a rischio la sicurezza del servizio e l’incolumità dell’utenza e dei lavoratori stessi. Naturalmente questo fenomeno è esteso a tutte le ferrovie concesse e le metropolitane. Il disagio che si sta verificando in questi giorni a Roma è ciò che succede quando i lavoratori fanno unicamente il loro turno ordinario e decidono di attenersi scrupolosamente ai regolamenti ed alla sicurezza.
Come chiarito poi nella lettera a Marino di un altro macchinista della Roma-Lido, in realtà nelle 37 ore di lavoro settimanale, «il tempo macchina medio sulla Roma-Lido è di 4 ore e 13 minuti al giorno (non si tratta di un mio calcolo ma di dati contenuti in documenti ufficiali stranamente ignorati) per 271/272 giorni lavorativi nell’arco dell’anno, al netto dei giorni di riposo e delle ferie. Il risultato, 1142/1147 ore di tempo macchina è molto molto lontano da quello che lei ha fornito alla cittadinanza “solo poco più di 700 ore l’anno”». I calcoli, del resto, sono ufficiali: basta leggere i contratti in vigore.
La mobilitazione dei lavoratori – e i conseguenti continui ritardi dei mezzi pubblici – hanno prevedibilmente esasperato i passeggeri, già costretti solitamente a lunghi tempi di attesa sotto il sole cocente (o sotto la pioggia battente) e a viaggi in condizioni disagiate, su treni malandati e affollati, spesso senza aria condizionata (e, nel caso dei CAF, senza finestrini!). A questo punto, però, la narrazione mediatica dell’azienda, preparata dai media nei mesi e negli anni precedenti e basata sulla retorica del dipendente pubblico fannullone, ha preso il sopravvento. I viaggiatori – ripetiamo, comprensibilmente esasperati e sfiniti – hanno accettato in toto il punto di vista di Atac e di Marino che accusavano i macchinisti di non voler l’introduzione del badge. Invece di prendersela con l’azienda, che appunto da anni costringe i lavoratori romani a quotidiani viaggi della speranza in convogli affollati e poco sicuri, i «macchinisti» sono stati identificati con «mostri» contro cui scagliarsi. Le aggressioni sono iniziate subito, il 1° luglio, portando alla paradossale situazione di stazioni presidiate dalla polizia e di convogli in cui i macchinisti erano affiancati dai carabinieri (leggi). E sono continuate per quasi venti giorni, in un crescendo di rallentamenti, aggressioni, risse sfiorate, passeggeri a piedi sui binari e interventi di polizia e carabinieri (leggi). Tra le aggressioni, anche quella di un macchinista, fermatosi alla metro Tiburtina in seguito a un malore e non creduto dai passeggeri (leggi) e quella contro i macchinisti di un treno fermo per un guasto nella stazione di Vitinia, sulla Roma-Lido, che sono stati presi a sassate (leggi e leggi). Un’esasperazione comprensibile, ma assolutamente non giustificabile quando essa assume la forma della guerra tra lavoratori: quelli che vogliono tornare a casa o andare a lavorare contro quelli che già stanno lavorando alla guida di un treno.
Anche in un contesto di deserto politico e di difficoltà collettiva di analisi, appare quasi stupefacente che il problema, per i giornali, per l’Atac, per il sindaco Marino, per buona parte dell’opinione pubblica e soprattutto per gli stessi viaggiatori non sia il fatto che buona parte dei treni e dei bus abbia dei guasti pericolosi per l’incolumità dei passeggeri (come una spia spenta, ad esempio: «spenta», cioè «non funzionante», che non indica malfunzionamenti), ma che gli autisti e i macchinisti li segnalino. Come è evidente da alcuni screenshots del sistema interno dell’Atac, infatti, i macchinisti vengono solitamente invitati a proseguire il servizio anche in caso di guasti (vedi). Del resto, il video sul vagone della metro B che ha viaggiato con una porta aperta è stato rilanciato da tutti i media come spia di un malfunzionamento dell’Atac che renderebbe necessaria la privatizzazione (vedi): evidentemente, invece, ha solo dato ragione ai macchinisti che bloccano i treni non sicuri.
Neanche i frequenti interventi dei lavoratori sui social network sono riusciti a bucare la narrazione dominante che li rappresenta come mostri. Negli ultimi giorni, ad esempio, è stato diffuso su youtube il video un autista Atac, Christian Rosso, in cui spiega perché, quando gli autobus non passano, la colpa non sia degli autisti (vedi). Rosso, nonostante qualche ingenuità, ha ben spiegato infatti come agli autisti capiti di andare in rimessa per prendere servizio e di non trovare la vettura che devono condurre, a causa di guasti: nella sua esperienza, gli era appena capitato di dover prendere servizio alle 14 e di dover aspettare, per farlo, fino alle 18, quando l’Atac considerava la temperatura abbastanza fresca per poter far viaggiare i passeggeri su bus con l’aria condizionata guasta. Questo video è molto importante, anche perché dimostra come sia del tutto falsa la contrapposizione che qualcuno ha cercato di avvalorare tra gli «autisti» e la presunta «aristocrazia operaia» costituita dai macchinisti. L’inconsistenza di questa divisione – e chi l’afferma, spesso, in realtà la auspica – è evidente anche dalla mobilitazione del sindacato autorganizzato Cambia-menti, guidato dall’autista Micaela Quintavalle, che ha sempre (come ovvio) sostenuto una lotta che è in primo luogo dei macchinisti (leggi).
Anche su facebook sono circolati molti appelli dei lavoratori, tra cui questo, che ben spiega la situazione:
Cari amici, mi trovo a scrivere questo post, lungo ma concentrato, perchè io e mio marito ci siamo veramente stancati di leggere stronzate in giro su cose di cui poco si sa, e speriamo quindi di chiarire almeno un po’ la faccenda. Parliamo di macchinisti Atac e di quello che sta accadendo alla metro di Roma.
1. In che consiste il lavoro del macchinista di Roma? Il macchinista fa turni di 6,10 ore giornaliere e 37 ore settimanali, esattamente come i suoi colleghi di Milano e Napoli, ma trasportando il quintuplo dei passeggeri.
2. Quanto guadagna il macchinista? Che ci crediate o meno, al contrario di quanto vogliono far credere il caro sindaco Marino e il dirigente stesso Atac, il macchinista non guadagna 4000-5000 € al mese (magari! ), ma 1500€.
3. Come mai d’improvviso la metro si è fermata? La metro finora ha potuto funzionare solo grazie alla professionalità e all’impegno del macchinista, perchè, checchè se ne dica, la colpa dei trasporti che funzionano male a Roma non è certo loro, che sono semplici lavoratori come tutti noi, ma di chi siede al governo. Spieghiamo perché: i turni giornalieri di servizio sono in media 250, mentre i macchinisti sono soltanto 170 (e si riducono a 150 effettivi se togliamo riposi, ferie e malattie). Come ha potuto finora una tale mancanza di personale non incidere sul servizio? Semplice: i macchinisti facevano lo straordinario, per non lasciare a piedi i pendolari. Turni doppi per garantire la mobilità della città.
4. Come funziona lo straordinario del macchinista? Il macchinista non è libero di scegliere se restare a lavoro 1 o 2 ore in più, ma deve fare per forza un altro turno di altre 6,10 ore.
5. Perchè adesso non continuano a fare lo straordinario? Perchè ora la metro è così rallentata? La risposta c’è, ma nessuno ve la dice. L’azienda Atac da poco tempo a questa parte ha deciso giustamente che devono essere rispettate le regole sul servizio, e quale è la più importante se non quella sulla sicurezza? Ora, la normativa europea in materia di sicurezza prevede che la distanza temporale tra un turno e l’altro di un macchinista debba essere di 7 ore (comunque non meno di 5), cioé il macchinista deve avere almeno 5 ore di riposo tra un turno e l’altro per non rischiare di addormentarsi e causare una strage. […] Se per fare lo straordinario il macchinista deve aspettare minimo 5 ore dopo il suo turno, ne consegue che a fine giornata avrà fatto 6,10+5 + 6,10= 18 ore circa minimo fuori casa. Vi sembra normale? Voi lo fareste? Ecco perché i macchinisti non fanno più lo straordinario! Perchè si stanno attenendo alla lettera alle regole. Ed ecco perché la metro di Roma è rallentata. […]
6. Perchè stanno protestando poi i macchinisti? Perchè l’azienda Atac […] ha deciso senza interpellare nessuno di disdire gli accordi di 2^ livello, accordi firmati a partire dal lontano 1962 dopo lotte e scioperi dei lavoratori dell’epoca, comportando una riduzione sulla busta paga fino a ben 500€. Voi non protestereste?
7. Questo benedetto badge. Il badge, cioé il cartellino elettronico che si timbra, è stato introdotto a forza nel lavoro del macchinista. Perchè dico a forza? Perchè nel sistema ferroviario non è previsto un badge, poiché il badge è il treno stesso, coi suoi orari di partenza e fine corsa. […]
8. Per tutti quelli che continuano a chiedersi come possa uscire un treno senza aria condizionata, sfatiamo una volta per tutte il mito del macchinista sadico che spegne l’aria apposta per far morire qualcuno o alza al massimo il volume della diffusione sonora per far impazzire i pendolari. Comandi del genere non esistono all’interno della cabina. Semplicemente può succedere che ci sia un guasto durante il servizio, specie quando la metro è più affollata e il condizionatore non ce la fa a raffreddare le carrozze.
Dopo due settimane di mobilitazione, alla metà di luglio, si è giunti all’accordo tra Atac e sindacati sulla contrattazione di secondo livello, che prevede 950 ore di guida all’anno per i macchinisti, l’introduzione di turni a nastro per gli autisti (6 ore e 20 minuti di guida e due ore di customer care e recupero mezzi al giorno), l’accesso al salario di produttività solo al raggiungimento di ben individuati standard in termini di presenza e qualità del servizio erogato.
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È necessario, a questo punto, aprire una parentesi sulle vicende dell’Atac degli ultimi anni, aiutandoci nel reperimento di dati con un’approfondita inchiesta pubblicata l’anno scorso dal collettivo Clash City Workes e con una scheda informativa diffusa in questi giorni dai Cobas. Da oltre dieci anni, i bilanci di Atac sono continuamente in rosso: non per i continui miglioramenti del servizio (anzi), o per un miglioramento delle condizioni contrattuali dei lavoratori, ma soprattutto a causa delle assunzioni indiscriminate effettuate dai principali dirigenti delle amministrazioni capitoline. Sia sufficiente ricordare lo scandalo «parentopoli» che coinvolse Gianni Alemanno che, durante il suo mandato, assunse come quadri e amministrativi nelle municipalizzate amici e parenti, oltre che camerati politici (leggi): in Atac, si parla un totale di 854 persone, senza alcuna qualifica, assunte quasi tutte come amministrativi. Quasi il doppio del numero totale dei macchinisti che lavorano in Atac.
Nel 2011, per far fronte a questa situazione di crisi, fu approvato un piano industriale che prevedeva, tra l’altro, di aumentare la produttività del personale viaggiante, considerata troppo bassa, e diminuire l’eccesso di personale amministrativo. Oltre a una riduzione dell’organico, mirante a risparmiare sul personale, si decise inoltre di aumentare il prezzo del biglietto (da 1 a 1,5 euro) e quello degli abbonamenti mensili e annuali,