L’impossibile politica. Note critiche sull’estasi del conflitto
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Anni di accomodamento riformista e di convergenze democratiche dei movimenti hanno prodotto, per reazione, una salutare rottura epistemologica. Contro ogni ipotesi centrosinistra, è stata rimessa al centro l’alterità totale tra istanze di classe e governo liberale, tanto nella forma conservatrice quanto per quella presuntamente democratica. La pappa maleodorante della presunta analogia di interessi tra partiti liberisti e movimenti sociali ha lasciato il campo al confronto tra amico e nemico, dialettica non sintetizzabile e che produce necessariamente il conflitto quale presupposto stesso del rapporto contraddittorio messo in piedi dalla politica. E’ il conflitto sociale lo strumento attraverso cui discernere gli amici dai nemici, il campo della nemicità da quello delle alleanze; e l’unico linguaggio possibile fra i due poli della politica schmittiana, riproposta in chiave rivoluzionaria, è lo scontro immediato, non condizionato cioè dal compromesso politico. E’ importante comprendere le premesse da cui proviene questa reazione igienica all’ortodossia riformista “dirittocivilista”. La crescita del movimento no-global, pur nella sua importante capacità di aggregare consensi, portava con sé il cancro dell’accettazione di un unico pensabile sistema di produzione, su cui intervenire semmai in chiave redistributiva, piegando la politica ad arte del compromesso sociale. A cavallo degli anni Duemila, la distanza che separava istanze rivoluzionarie da questo neo-riformismo in salsa cristiana non poteva essere più grande. Anche il più trito e criticabile tradeunionismo inglese, in confronto, aveva la capacità di intervenire più a valle del ragionamento spingendo in alto la dinamica salariale. Si era, in sintesi, decretata la resa incondizionata delle possibilità di incidere sull’esistente accettando una condizione di subalternità al sistema produttivo. Oltretutto, all’aspetto tragico della resa politica si sommava la commedia di un ceto politico di movimento divenuto incapace di percepirsi fuori dal mondo istituzionale-rappresentativo, in un circolo vizioso che determinò l’impossibile autonomia dei movimenti dai canali della sopravvivenza elettorale di qualche tipo: regionale, comunale, municipale.
Da diverso tempo però l’opzione “conflittualista”, nonostante l’evidente egemonia che ha assunto all’interno del discorso movimentista, dimostra l’incapacità di uscire da un certo minoritarismo congenito. Se il movimento no-global esercitava un’egemonia di consenso senza conflitto, questa egemonia del conflitto è incapace di generare consensi esterni al mondo della militanza politica. E’ per questo che anche l’assolutizzazione del conflitto quale dinamica principale ed esclusiva del mondo della politica non riesce a risolvere l’attuale problema dei movimenti italiani, cioè il loro essere di fatto esclusi dal gioco della politica dove si determinano i rapporti di forza tra classi contrapposte. Questa “egemonia del conflitto” però non è un fatto di oggi o frutto esclusivo di una benefica reazione al riformismo socialdemocratico. Viene da lontano e punta ad altro che non a rompere i ponti coi Casarini di turno. E’ per questo che occorre comprendere dove si situa il problema politico di questa visione dei rapporti sociali e politici, per capire come tale versione delle cose impedisce oggi di uscire dalla tara politica principale dei movimenti di classe che, come abbiamo detto, è il loro minoritarismo, il loro essere protagonisti di un campionato di serie B, tenuti ai margini delle decisioni rilevanti di carattere generale. E’ altresì importante sottolineare che questo carattere marginale coinvolge tutto il movimento antagonista o di classe (dai partiti ai sindacati, dai centri sociali ai collettivi), non questo o quel gruppo. Per movimento qui intendiamo l’insieme delle organizzazioni politiche o sociali interne o espressione degli interessi delle classi subalterne.
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Una certa moda interpretativa descrive i movimenti degli anni Settanta completamente “altri” rispetto a quelli odierni, assolutamente inconciliabili nella forma e nella qualità politica. Da tempo proponiamo un ragionamento inverso: per noi, sono più le contiguità che le distanze. Per certi versi, peraltro ancora necessari di indagine storica e politica, i movimenti di oggi non costituiscono solo la diretta filiazione di particolari esperienze degli anni Settanta, ma anche una loro costante riproposizione in sedicesimi. Col passare degli anni ci sembra sempre più evidente un fatto, e cioè che non si è prodotta una rottura tra una parte di quei movimenti rivoluzionari e i movimenti antagonisti di questi anni. Certo, c’è una lampante riduzione di scala, che porta con sé non solo un dato quantitativo palese, ma anche un certo modo di fare politica e certe benefiche contraddizioni che attraversavano quei movimenti e non questi. Ma l’impostazione teorica fondamentale, quella ci sembra ritornare uguale a se stessa. E non è un caso che la maggior parte dei leader e presunti “grandi vecchi” dei movimenti odierni provengano direttamente da quelle esperienze. Sembrerà un fatto banale ma non è così. Da sempre un ciclo di lotte e un’esperienza politica si formano attraverso la rottura col ciclo di lotte precedente, attraverso una rilettura critica capace di innovare un discorso, non di ripercorrerlo pedissequamente. Il gruppo di Ordine Nuovo a Torino e la nascita del Pci a Livorno avvennero in rottura con la tradizione politica precedente, quel riformismo economicista socialista che aveva caratterizzato lo sviluppo delle lotte di classe dalla fine dell’Ottocento agli anni Venti del Novecento; le esperienze rivoluzionarie degli anni Settanta ebbero luogo in rottura con la Resistenza, il grande ciclo di lotta precedente. Rottura, in questo caso, non è evidentemente rifiuto di un modello, quanto il suo radicale aggiornamento, il presupposto da cui partire, non lo schema da ripetere. I movimenti degli anni Duemila non riescono ad emanciparsi da determinati filoni politici generati a ridosso del lungo Sessantotto italiano: anni grandiosi, anni rivoluzionari, ma che produssero uno sconfitta, non una vittoria, e questo pochi tra i dirigenti riciclatisi nel tempo lo riconoscono. L’aver addebitato tale sconfitta unicamente alle forze della repressione è uno dei nodi che impediscono di coglierne i limiti politici. Nei fatti, la mancata metabolizzazione ha prodotto una sineddoche politica per cui oggi viene descritto quel periodo attraverso la narrazione del pensiero post-operaista. Un pensiero perdente nello scontro più generale sulla questione del potere, ma capace di ritagliarsi il suo spazio d’egemonia nel movimento italiano degli anni Ottanta e poi definitivamente con la stagione dei centri sociali. Ristretto il campo prospettico, si perde il quadro generale dello scontro politico in atto, del rapporto dialettico tra società di massa, ruolo del Pci e avanguardie politiche rivoluzionarie, operando una reductio illegittima che interpreta quel periodo attraverso la vicenda dei gruppi dell’estrema sinistra, e questi attraverso la chiave interpretativa post-operaista. Nei fatti, sconfitte tutte le altre culture politiche, morto il Partito comunista, espunta dai canoni del politicamente comprensibile la lotta armata, l’unica chiave interpretativa rimane quella operata da un particolare gruppo dirigente di quegli anni, che però in un vasto processo auto assolutorio e ri-legittimante nega la questione centrale di quel periodo, cioè la lotta per il potere, concentrandosi sull’aspetto epocale della vicenda. L’avanguardismo politico di quegli anni, possibile solo all’interno del rapporto dialettico col Pci quale cinghia di trasmissione col potere e con lo Stato (un rapporto dialettico oggettivo, non ricercato, e presente anche nei momenti di maggiore rottura), degrada ad avanguardismo sociale, a teoria dell’insurrezione che anche nei momenti di maggior seguito di massa non determina alcunchè se astratto dal contesto. Nei fatti la storia del movimento operaio dovrebbe insegnarci che la funzione di massa di un soggetto politico non è determinata dal numero di persone aggregate ma dal ruolo che tale soggetto riesce a ricoprire nel campo della politica. Esistono esempi di partiti numericamente ristretti ma centrali nelle lotte di classe (uno su tutti, il Partito bolscevico) ed esempi speculari di partiti o movimenti numericamente enormi ma incapaci di incidere nei rapporti di forza (uno su tutti, il sindacato anarchico spagnolo Cnt a ridosso della guerra civile). Questa la cornice generale entro cui si inserisce la questione del conflitto quale unico strumento attraverso cui leggere e trasformare la realtà.
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La “teoria del conflitto” non è insita nel pensiero marxista come potrebbe presumersi a prima vista. Questa è il risultato di un processo teorico di rottura con l’impostazione comunista “ufficiale”, un processo che in Italia ha preso forma dall’esperienza dei Quaderni Rossi e dalla nascita del cd “operaismo” quale pensiero radicale rivoluzionario opposto all’ortodossia comunista. Non vogliamo ripetere sintesi politiche per lo più conosciute, ma la “rivoluzione copernicana” operata da Tronti nel 1966 (ma già in gestazione dal 1961) sta proprio in questo: nel porre al centro dell’analisi del e sul capitale il conflitto tra questo e il lavoro di fabbrica. Laddove Marx operava una ricostruzione storico-economica dei sistemi di produzione alla cui base veniva posto il momento cooperativo, Tronti opera un’analisi sociologica della classe operaia quale espressione diretta del rapporto conflittuale col capitale. Non è il capitale che costituisce la classe operaia ma il contrario: è il proletariato che attraverso i suoi percorsi di resistenza costringe il capitale ad innovarsi prendendo la forma attuale e in continua evoluzione. La classe operaia in altri termini è il motore dello sviluppo, e le lotte operaie lo strumento attraverso cui il capitale innova se stesso. Questa impostazione teorica fondamentale poi ne produsse a cascata diverse altre, prima delle quali il rifiuto del lavoro quale massimo strumento per inceppare i meccanismi di rigenerazione del capitale. E’ bene chiarire che questa impostazione non c’entra nulla col marxismo propriamente detto, nel senso che per Marx l’origine dello sviluppo umano, dell’uomo in quanto animale sociale, è la cooperazione, data in forma alienata per ragioni storiche verificabili (e che Marx per l’appunto verifica nelle sue opere e soprattutto nel Capitale), e che costituisce il presupposto e il fine delle lotte di classe: quello della riappropriazione del momento cooperativo in forma non mediata dal profitto privato.
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Ora, questa impostazione è stata nel corso del tempo più volte smentita dalle circostanze storiche. Si potrebbe produrre una mole infinita di esempi, ma basta guardare allo sviluppo capitalistico di questi anni in Occidente. L’assenza di conflittualità operaia, anzi la scomparsa del protagonismo politico della classe operaia, non ha impedito al Capitale di innovare se stesso procedendo nella sua continua trasformazione. E questo per un fatto in sé molto banale ma che dalla teoria operaista viene completamente ignorato o degradato a fatto secondario, e cioè che il capitalismo non è un blocco omogeneo di potere ma uno scontro continuo tra capitali avversi. Il capitalismo in altre parole è costretto alla continua trasformazione per la concorrenza spietata tra capitali opposti. Lungi dall’essere un blocco economico, politico, sociale o culturale omogeneo e identificabile, il capitalismo è il luogo dello scontro e del conflitto, che esaurita la fase di espansione coloniale dei territori non statualizzati, non può far altro che procedere all’aggressione dei capitali concorrenti. Aggressione che non determina solo una dinamica tipicamente militarista, ma anche un processo economico imperialista volto a superare in produttività il capitale concorrente. Questo blocco estremamente eterogeneo trova una sua compattezza momentanea solo nella repressione delle classi subalterne nei momenti di maggiore conflittualità, ma in assenza di questi, lasciato libero dagli impedimenti delle lotte di classe, lo scontro infracapitalistico si pone come la normalità dell’evoluzione del sistema produttivo.
Un’altra importante rilevazione da operare per inquadrare nel migliore dei modi questa forma di pensiero rivoluzionario è che, conseguentemente alle premesse espresse, la lotta di classe sarebbe più forte laddove la classe è oggettivamente più strutturata, cioè nei paesi a capitalismo maturo, una “maturità” prodotta proprio dalle condizioni “alte” generate dal conflitto. Questo presupposto si scontra però con altre evidenze storiche e in particolare due: la prima, che la storia delle rivoluzioni del Novecento dimostra che è più facile rompere nel punto più fragile della catena imperialista, non in quello più forte, e difatti la storia del Novecento è una storia di rivoluzioni in paesi poveri e ad egemonia contadina; la seconda, che tale visione ideologica portò a sottovalutare il processo anti-coloniale, considerato marginale rispetto al quadro generale degli interessi del proletariato, quando invece era proprio nella decolonizzazione che si generarono i punti più alti della lotta al capitalismo imperialista e che produssero un nuovo ciclo rivoluzionario dopo quello degli anni Venti. La Cina, Cuba e il Vietnam in particolare non possono essere compresi se non nella loro cornice di lotta anticoloniale. All’opposto, e al di là dello specifico caso italiano – peraltro possibile solo all’interno dell’interpretazione dialettica tra forze in campo e più generale processo sociale in corso espressa in precedenza – in nessun punto dell’Occidente capitalista “maturo” si produssero lotte capaci di superare la condizione di subalternità congenita al potere costituito. Non negli Stati uniti, no nella Germania federale né in Francia o in Giappone, cioè i paesi a quel tempo trainanti il capitalismo in fase di trasformazione post-fordista. Se sono le lotte ad aver formato la maturità del capitale nei contesti più avanzati, perché queste vedono proprio nell’Occidente sviluppato un’asfissia politica che invece in altre zone del mondo non è paragonabile? A questa domanda il pensiero operaista non trova una risposta coerente con la sua impostazione e svicola in tre direzioni: da una parte assume per intero la dimensione sociologica à la Vittorio Rieser, una dimensione importante, significativa, utile a comprendere i processi di trasformazione della classe operaia al suo interno, ma che determina l’abbandono della politica; la seconda dimensione è il rientro degli intellettuali delusi nel recinto della grande Politica, che però è quella riformista, ed è la strada presa da Tronti (o da Cacciari, che rifugiandosi nella dimensione totalmente filosofica non riesce a proporre politicamente niente che non sia un “Pd di sinistra”, un riformismo redistributivo dal volto umano); la terza dimensione è quella proposta da Negri, cioè la teorizzazione della centralità della moltitudine trainata dalle lotte del precariato cognitivo, che però abbandona il concetto di classe rigidamente operaista per assumere il punto di vista oggettivamente trasversale del soggetto moltitudinario. E’ vero che il cd “cognitariato”, il precariato intellettuale, lo studente disoccupato o sottopagato, in questi anni ha assunto la funzione di stimolo e motore di molte lotte, ma questo contraddice la rigida centralità classista che era alla base dell’operaismo.
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Perché questo impianto permane direttamente nell’impostazione di fondo dei movimenti odierni, e perché questa stessa impostazione impedisce di fare politica riducendo i soggetti politici antagonisti ad agenti sociali in un eterno ritorno del sindacalismo rivoluzionario? Se al centro del discorso non è l’analisi del capitale e delle forme di capitalismo ma l’analisi sociologica della classe operaia cuore dello sviluppo capitalistico, si produce un’inevitabile abbandono dell’analisi del capitalismo e delle sue evoluzioni per concentrarsi sull’indagine della classe. E infatti, il cuore della prassi politica operaista consisteva conseguentemente nell’inchiesta sociale permanente. “Chi non fa inchiesta non ha diritto di parola”, scandivano gli operaisti riprendendo il giusto monito di Mao Tse Tung, che però si inseriva in un’altra cornice politica di riferimento, assumendo un diverso significato. Oltretutto, conseguenza diretta di questo impianto politico, come detto, è considerare il capitale un blocco omogeneo e invariabilmente avverso agli interessi della classe operaia. E’ qui che si situa la difficoltà politica del pensiero operaista, che già aveva prodotto contraddizioni insanabili nei primi operaisti (che portarono l’ala filosofica di Negri e Tronti a rompere con Panzieri, Rieser e soci, e successivamente questi due a rompere fra loro in direzioni contrastanti, col ritorno di Tronti alla Politica con la P maiuscola – come piace dire all’autore – tramite l’adesione al Pci: dunque compiendo un’ulteriore rivoluzione copernicana spostandosi dall’insurrezionalismo immediato – cioè non più mediato dalla politica – all’estrema mediazione riformista del Partito comunista). L’abbandono dell’analisi sul capitale impedisce di cogliere gli scontri in atto nel capitalismo non determinati dalla conflittualità operaia, portando per l’appunto a considerare tutto il capitale inequivocabilmente uguale: Putin è uguale a Obama che è uguale a Jinping che è uguale ad Assad che è uguale a Renzi che è uguale a Grillo che è uguale a Salvini continuando così all’infinito, non cogliendo che ognuno di questi rappresenta un modello sociale e produttivo differente e in contrapposizione vicendevole. Questi scontri producono contraddizioni in cui il marxismo e il leninismo novecenteschi giocavano la propria partita, spostandosi tatticamente di volta in volta su quelle sponde che consentivano margini di manovra maggiori, egemonizzando frazioni della borghesia contro altre. Ad esempio agitando la bandiera internazionalista nel ventre della Prima guerra mondiale e nel ’36 in Spagna, recuperando invece la dimensione nazionale nella Seconda guerra mondiale e nella fase anti-coloniale, di volta in volta procedendo all’analisi concreta della situazione concreta cogliendo il senso tattico del momento storico.
Questo il senso della politica in senso dialettico e leninista. Cosa succede invece se è il conflitto e la centralità operaia l’angolo di visuale esclusivo del modello produttivo? Come detto, il capitalismo verrà individuato come un’invariante omogenea al proprio interno. Impossibile, in questo senso, immaginare alleanze tattiche, determinare un nemico principale da uno secondario, un alleato momentaneo in uno scontro di diverso tipo e contro altri soggetti che una volta prodotto determina alleanze di diverso tipo e contro gli alleati di ieri. Questa dinamica impedisce ogni tipo di politica che non sia semplicemente la compattazione del “fronte interno”. Ma questo fatto si scontra con la storia del movimento operaio, che anche nei momenti più alti – cioè nelle fasi rivoluzionarie – ha visto sempre il prodursi di alleanze spurie, conscio del fatto che il solo “fronte interno” non basta nelle fasi più acute della rivoluzione. Figuriamoci nelle fasi più rilassate e in cui i soggetti politici proletari sono più deboli e meno capaci di incidere nei rapporti di forza.
La vicenda greca di questi giorni è un brillante esempio di questo schema. Lottare contro l’Unione europea non è un fatto di classe e rivoluzionario, ma un fattore trasversale che vede pezzi rilevanti di borghesia assumere lo stesso obiettivo intermedio delle avanguardie politiche comuniste. Non c’è alcun bisogno di partiti rivoluzionari o lotte armate per il comunismo per realizzare un obiettivo che in realtà potrebbe essere colto se appunto ci fosse la capacità politica di sfruttare le contraddizioni interne al campo della borghesia (anche se per sfruttarle occorrerebbe un soggetto politico conseguente). Forse per questo che tale lotta fatica a trovare consensi a sinistra: perché è un fatto spurio e non direttamente progressivo, che presuppone un’analisi del capitale e non esclusivo della classe operaia, che impone una Politica, cioè una visione tattica della situazione e non solo degli obiettivi strategici di lungo periodo.
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In conclusione, l’impostazione operaista non va rigettata completamente ma non va assunta totalmente. E’ importante cogliere di questo “non rifiuto”. E’ vero che il capitale si trasforma anche in conseguenza delle lotte di classe, ma non esclusivamente in base a queste. E’ il capitalismo nel suo complesso che va analizzato, e tramite questa analisi comprendere dove si trova il soggetto potenzialmente e oggettivamente rivoluzionario perché centrale di un determinato modo di produzione. Se non si opera questa analisi generale, il rischio di cadere nel soggettivismo post-operaista che vede nel cd “cognitariato” il centro dello sviluppo capitalista è dietro l’angolo. Non accorgendosi che, paradossalmente, proprio dove è più forte questo ceto trasversale sono più deboli le lotte. E questo problema è speculare a chi individua ancora nell’operaio di fabbrica il cuore della produzione in Occidente: l’operaio contrattualizzato della grande fabbrica non è in dismissione quantitativa ma ha perso la sua centralità politica, e questa non è possibile recuperarla tale e quale perché nel frattempo è venuta meno la sua centralità nel sistema produttivo occidentale (occidentale, non globale: qui stiamo parlando delle sorti della sinistra italiana e, per consonanza, europea. In altre parti del mondo, ad esempio in America Latina, la situazione in questo decennio ha assunto una forma e uno sbocco completamente diversi). Ambedue le visioni elevano la propria condizione soggettiva ad elemento generale, perché troppo schiacciate sulla ricerca del proprio io senza comprendere la sua relazione col resto del modo di produzione.
Bisognerebbe fare attenzione anche a non confondere il conflitto sociale con le lotte di classe. Non tutte le lotte economiche sono lotte di classe (come afferma indirettamente già Marx nel Manifesto e Lenin in praticamente tutte le sue opere), ma queste assumono tale forma quando intervengono nel campo della politica spostando in potenza i rapporti di forza. E’ per questo che la “teoria del conflitto” è importante ma monca, e che se assunta interamente impedisce di pensare una politica come tattica rivoluzionaria. Altresì è importante allo stesso modo conservarne lo spirito inconciliabile ad ogni pacificazione che purtroppo si portano con sé le visioni accomodanti con l’esistente. Qui si situa il problema dei movimenti attuali, che è stato anche il problema dei movimenti degli anni Settanta, almeno di quella parte che riciclandosi ha poi operato la reductio autoleggittimante. Non c’è una scelta di campo da operare ma una sinergia da trovare. Ed è per questo che è una discussione da sviluppare per rompere criticamente con certi presupposti teorico-politici e costruire un nuovo ciclo di lotte all’altezza dei tempi, conservando il cuore e il significato politico di quegli anni: la lotta per il potere.
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