La crescita del capitale

La crescita del capitale

 

Da qualche tempo, attraverso contorsioni ideologiche ai limiti del credibile, leggiamo di un’Italia e di un’Unione Europea alla fine del tunnel della crisi economica. Grazie alle necessarie riforme sul lavoro e sui bilanci pubblici, i paesi europei starebbero imboccando la strada dell’agognata ripresa produttiva. Una crescita per di più non viziata da politiche di deficit finanziario, ma finalmente in linea con i parametri adeguati ad una crescita responsabile e sostenibile. Sembra una barzelletta ma è davvero il racconto dominante, quello di un sistema economico che ha infine riformato se stesso e che ora può procedere verso le magnifiche sorti e progressive di un mercato libero dai vincoli pubblici. Una versione che però si scontra con la materiale quotidianità nella quale siamo costretti a vivere.

 

 

Chiamare crescita qualche zerovirgola in più dopo anni di concrete batoste produttive già ci racconta della profonda versione ideologica promossa dai media. Una realtà fatta di disoccupazione, di impoverimento, di arretramento economico generalizzato non può venire taciuta per qualche fatidico +0,1%. Una realtà che si scontra con una certa narrazione politico-mediatica che ha trovato l’escamotage retorico capace di raccontarci di un’economia in crescita quando tutti i principali dati economici ci descrivono una struttura produttiva in profondo declino. Ma soprattutto, questa tanto sospirata “crescita” già viene definita “jobless”, senza lavoro, come se fosse realizzabile una crescita economica senza aumento dell’occupazione. E invece è possibile: è la crescita di un capitalismo neoliberista non più legato all’obbligo di sostenere una domanda interna, quindi dei salari adeguati all’assorbimento della produzione, quindi di una progressiva riduzione della disoccupazione. Ma non è l’unico “problemino” di questa tendenza economica, almeno per il nostro paese.

 

Questa presunta “crescita” avviene contestualmente a una riduzione progressiva del nostro sistema industriale. Poco male, qualcuno potrebbe pensare: l’economia industriale è roba da Novecento, oggi siamo in piena “new economy”, green, social, cognitaria. Non è così. L’economia industriale è in espansione in tutto il mondo, così come è in costante espansione la manodopera operaia. Si sta solo spostando dove è più conveniente produrre, nei paesi di nuova colonizzazione economica. Per di più, l’economia industriale continua a crescere anche in alcuni paesi europei: la Germania, ad esempio. Nel processo di specializzazione produttiva europea, la Germania continua ad espandere la propria vocazione manifatturiera. Mica scemi, i tedeschi. Solo attraverso il controllo industriale è infatti possibile stabilire un rapporto di forze politico a livello internazionale. Un’economia de-industrializzata è un’economia dipendente.

L’economia italiana che cresce, stavolta senza le virgolette, è quella delle aziende orientate all’export, il sistema dei servizi e quella legata al turismo. Fuori da questo trinomio mortale, c’è solo un lento e inesorabile processo di impoverimento complessivo del sistema-paese. L’export ingrassa i profitti delle aziende ancora in grado di reggere la competizione internazionale fondata sullo sfruttamento della mano d’opera internazionale, impendendo al mercato interno di stimolare una domanda non più in grado di assorbire la produzione nazionale; il sistema dei servizi e del terziario ci sta trasformando rapidamente da economia industriale-manifatturiera a economia da rendita speculativa; infine, la dinamica turistica ci sta trasformando nella Florida d’Europa, una terra dipendente economicamente dalla ricchezza estera, e in particolar modo dalla ricchezza estera privata, dai flussi turistici dei “nuovi ricchi”. Tre fattori che non prevedono alcuno stimolo per la domanda interna, cioè non prevedono alcuna dinamica salariale progressiva.

Un’economia fondata sulla ricchezza privata  e sulla povertà pubblica, capace di intercettare profitti generati in altri paesi, trasformando uno Stato sovrano in un paese alle dipendenze dei gusti stranieri, in particolar modo del ceto medio-ricco globalizzato sempre più transnazionale. In questa gigantesca divisione produttiva, l’Italia sarà destinata a perdere qualsiasi forma di autonomia politica e di indipendenza, legando la propria economia alla capacità finanziaria di agenti esterni capaci di controllarne la propria sorte economica (e dunque politica). Un cappio al collo stretto da un ceto politico trasversale, da Sel alla Lega Nord passando per il Pd, che relegherà le sorti dell’Italia a dependance turistico-affaristica per le scorribande straniere in cerca di territori dove reinvestire gli enormi profitti generati da una manodopera tornata, negli anni Duemila, alla condizione di schiavitù pre-moderna. Il vero segno della modernità post-novecentesca.