Resistere è vincere, Cuba ha vinto!
Coerentemente con quanti sostengono che la Storia procede per strappi e salti in questi giorni i rapporti tra la Isla Grande e il vicino imperialista nordamericano hanno registrato un’indubbia accelerazione, anche se siamo convinti che per comprendere la reale portata di quanto sta avvenendo bisognerà aspettare ancora qualche mese. In queste ore le dichiarazioni di Raul e Barack Obama hanno finito per monopolizzare la scena mediatica globale e visto che i fatti sono ormai noti a tutti eviteremo di tornarci sopra in questa sede. Più interessante ci sembra invece provare a riflettere “a caldo” sulle ragioni che hanno determinato questo cambio di rotta da parte dell’amministrazione statunitense dopo oltre 50 anni di guerra economica contro la rivoluzione cubana.
Un primo elemento su cui ragionare è sicuramente la presa d’atto da parte degli USA del fallimento di una strategia decennale che mirava a strangolare la Rivoluzione cubana minandone il consenso interno. Un progetto divenuto ufficialmente legge degli Stati Uniti il 3 febbraio del 1962, ma portato avanti fin dai primi giorni dopo l’ingresso dell’ejercito rebelde all’Avana attraverso attentati, sabotaggi e operazioni di guerra commerciale. Vale la pena a tal proposito ricordare quanto ebbe a dire il 6 aprile del 1960 l’allora sottosegretario di Stato per gli Affari interamericani Lester D. Mallory al segretario di Stato Roy Rubottom: la maggioranza dei cubani sostiene Castro. Non c’è opposizione politica efficace… l’unico mezzo possibile per annientare il sostegno interno al regime è provocare la disillusione e lo scoramento attraverso l’insoddisfazione economica e l’indigenza… Tutti i mezzi possibili devono essere messi in atto rapidamente per indebolire la vita economica di Cuba. E ancora: sopprimendo la nostra quota l’industria dello zucchero soffrirebbe di un declino vertiginoso a causa di una disoccupazione diffusa. Molte persone si ritroverebbero senza lavoro e comincerebbero a soffrire la fame (Rapporto interno del dipartimento di Stato USA del 22 giugno del 1959). Visto che, come ci hanno insegnato a scuola, quando si studia la storia le date sono importanti, è utile sottolineare a vantaggio dei più distratti e di chi anche in queste ore tende ad invertire la relazione di causa/effetto, come questo avvenisse esattamente un anno prima dello storico comizio in cui Fidel sancì il carattere socialista della rivoluzione cubana (La Habana, 16 aprile 1961). Com’è noto la successiva collaborazione con i paesi del blocco sovietico permise alla giovane revoluciòn di crescere e rafforzarsi nonostante l’embargo, facendo così di Cuba nel giro di pochi anni uno dei Paesi culturalmente, scientificamente e tecnologicamente più progrediti del latinoamerica. L’implosione del campo sovietico diede però nuovo vigore alla strategia della guerra economica tanto che il bloqueo in pieno periodo especial venne ulteriormente rafforzato con le leggi Torricelli (1992, amministrazione Bush senior) e Helms-Burton (1996, amministrazione Clinton). Chi conserva la memoria di quel periodo ricorderà le previsioni funeste dei sedicenti “cubanologi” che dalle colonne dei giornali e dagli studi televisivi quasi ogni giorno davano per imminente la caduta del “regime”. Anche in quel caso però la strategia statunitense risultò inefficace e nonostante le enormi difficoltà affrontate il popolo cubano dimostrò di voler proseguire sulla strada per il socialismo. E’ proprio in questi anni, tra l’altro, che comincia a prendere forma, soprattutto tra le fila dell’anticastrismo di marca “progressista” e socialdemocratica, la tesi secondo cui in fin dei conti il bloqueo rappresenterebbe un alibi e non farebbe altro che consolidare il potere di Fidel tenendo artificiosamente uniti i cubani contro lo spettro di un nemico comune. E non è un caso che in queste ore sia proprio questa la chiave di lettura adottata da gran parte dei media italiani per provare ad interpretare quanto sta accadendo. Si tratta ovviamente di una lettura di comodo che, se da un lato cerca di nascondere il consenso e il prestigio di cui gode la Rivoluzione, dall’altro occulta il fatto che in oltre mezzo secolo il blocco economico ha provocato danni all’economia cubana per 975 miliardi di dollari, rallentando o rendendo impossibili progressi che altrimenti avrebbero permesso un ulteriore rafforzamento del sistema socialista. Più scuole, più università, più case, più ospedali, più strade… possiamo solo immaginare, anche alla luce di quanto comunque è stato fatto, cosa avrebbe potuto significare per il popolo cubano vivere senza il nodo scorsoio del blocco economico statunitense. Una lettura di comodo, quella dei media internazionali, che cerca inoltre di rimuovere il vero dato politico di questa vicenda: dopo un aggressione durata oltre 50 anni Cuba ha vinto! Davide ha sconfitto Golia. Perché se davvero gli Stati Uniti rimuoveranno il blocco economico, e qui il condizionale è d’obbligo visto che sia da gennaio il congresso sarà totalmente a guida repubblicana, questo fatto equivarrà alla presa d’atto di una sconfitta da parte del gigante a stelle e strisce. Lo ribadiamo dunque: dal punto di vista materiale per il momento si tratta solo di dichiarazioni di intenti e il blocco rimane (anche se Barack Obama potrà usare il suo potere esecutivo per indebolire il nodo che strozza Cuba), ma il dato fondamentale per noi è quello politico. Un dato che, al di la della retorica con cui gli esponenti politici dell’amministrazione statunitense raccontano l’evento, viene colto in tutte le sue implicazioni proprio dai settori più reazionari dell’anticastrismo, tanto a Miami quanto sulla stessa isola, e che fa dire anche a Yoani Sanchez che questa è stata la “vittoria di Castro” (leggi).
Il secondo elemento di riflessione, molto più prosaico del primo, è di natura economica. Settori sempre più importanti della borghesia statunitense da tempo percepiscono come anacronistico precludere alle proprie merci un mercato di sbocco con 11 milioni di potenziali consumatori e distante solo 90 miglia marine dalle proprie coste, soprattutto in tempi di sovrapproduzione. Non a caso aziende come la General Motors, la Ethan Allen Interiors e il gigante agroalimentare Cargill ieri hanno salutato con grande entusiasmo le dichiarazioni di Barack Obama. “Cuba ha bisogno di qualsiasi cosa che viene prodotta dagli Stati Uniti” ha spiegato al Wall Street Journal Bill Lane, della Caterpillar, la multinazionale americana specializzata nella produzione di veicoli e macchinari per le costruzioni, le estrazioni e l’agricoltura, aggiungendo che “era da 15 anni che stavamo chiedendo nuove politiche verso Cuba” (leggi). Sempre negli USA, non più di qualche mese fa, era stato dato alle stampe dai tipi del Peterson Institute for International Economics uno studio sugli effetti che avrebbe avuto la normalizzazione dei rapporti economici (vedi) e che i ricercatori quantificano in un incremento delle esportazioni fino a 4300 milioni di dollari annui. Considerazioni che avevano portato perfino Charlie Christ, ex governatore repubblicano della Florida e oggi probabile candidato democratico per il medesimo stato, a dichiarare che “è ormai giunta l’ora di togliere l’embargo a Cuba”.
Il terzo spunto di riflessione è la progressiva mutazione dell’atteggiamento nei confronti della Rivoluzione da parte della comunità cubano-americana, soprattutto di quella di stanza in Florida che, da sola, rappresenta il 70% dell’immigrazione cubana negli USA. Come ci spiegavano tempo fa alcuni compagni cubani nel corso degli anni la componente ideologicamente anticastrista, pur mantenendo nelle sue mani un notevole potere, ha visto diminuire la propria egemonia in particolare nei confronti di quella nuova immigrazione che ha una matrice prettamente economica. Cittadini cubani che non “fuggono” per improbabili persecuzioni politiche, ma che emigrano attirati dal luccichio della propaganda occidentale e dalle lusinghe di un sogno americano a buon mercato, e che mal sopportano le restrizioni ai viaggi e alle limitazioni alle rimesse verso i parenti rimasti in patria. Una trasformazione lenta ma inesorabile che ha mutato i termini del dibattito politico reale tanto che oggi, fatto impensabile solo fino a qualche anno fa, anche noti imprenditori cubano-americani, come Carlos Saladrigas e Alfonso Fanjul (industria dello zucchero) stanno facendo pressioni affinché “l’esecutivo (ovvero l’amministrazione Obama) ristabilisca la propria autorità sulla politica degli Usa nei confronti di Cuba” (Il Manifesto 16/5/2014).
Crediamo che queste riflessioni siano state completamente rimosse dalla narrazione mediatica degli eventi che ha, invece, da una parte preferito amplificare a dismisura il ruolo di mediazione svolto dal pontefice, dall’altra si è concentrata su elementi di dietrologia spicciola: quali il presunto deterioramento del rapporto fra Cuba e Venezuela o il tentativo di riconquista dell’egemonia statunitense sul Cono Sur. Tutto ciò ha finito per influenzare la percezione di molti compagni che sembrano guardare più con sospetto che con allegria agli eventi in corso. Non siamo ingenui e, soprattutto, non lo sono i cubani. Il cambio di rotta annunciato dalla Casa Bianca non corrisponde certo ad un atto di filantropia internazionale, né tantomeno ad una rinuncia alle mire imperialiste su Cuba, ma riponiamo un’assoluta fiducia nel fatto che il PCC e il popolo cubano saranno in grado di affrontare questa nuova fase riuscendo a coglierne tutte le opportunità per rafforzare la Rivoluzione e il socialismo, così come hanno dimostrato negli ultimi 60 anni. Nel frattempo ci godiamo il ritorno a casa di Gerard, Ramòn e Antonio perchè, come aveva promesso Fidel nel 2001, VOLVIERON!.