Le guerrigliere curde, ovvero di come i media italiani neutralizzano la rivoluzione in marcia in Rojava
I media borghesi, si sa, riescono a triturare qualsiasi evento per presentarlo al grande pubblico privilegiando gli aspetti che gli tornano più utili. È il caso, nelle ultime settimane, delle immagini delle guerrigliere curde continuamente diffuse dai media (vedi): immagini che, in molti casi, mostrano donne giovani e belle, così sorridenti che non sfigurerebbero sulla copertina di “Vanity fair” (vedi). Con alcune eccezioni, la loro presenza attiva nella resistenza curda viene ridotta a pettegolezzo dai mezzi di comunicazione italiani, che parlano di combattenti dell’I.S. che sarebbero spaventati dal queste donne soldato (già si sono scordati che solo poche settimane fa gli stessi media lanciavano l’allarme per le ragazze britanniche che si arruolavano con i fondamentalisti sunniti ). Essi, facendo leva su un miscuglio di orientalismo, attrazione per l’esotico e fascinazione per le donne-soldato (basta guardare quanto ha scritto Gennaro Carotenuto in un articolo dell’agosto scorso sulle guerrigliere del Pkk, «delle quale potrei innamorarmi in blocco» , oppure un articolo di un paio di anni fa su Vice, in cui di una di esse si diceva che dava «l’idea di essere stata molto bella in passato»), presentano un’immagine “neutralizzata” e “depotenziata” di queste guerrigliere. In questa mistificazione della realtà, le combattenti – definite spesso erroneamente peshmerga (che sono, invece, i combattenti del Pdk, il partito curdo iracheno alleato degli occidentali, che non ha ostacolato l’I.S. finchè non ha interferito con i suoi interessi), mentre sono militanti delle Ypg (Unità di difesa popolare) e delle Ypj (Unità di difesa delle donne) del Pyd, il partito maggioritario nel Kurdistan occidentale (la “Rojava”, nella Siria del nord), da sempre legato ai curdi del Pkk in Turchia – vengono presentate come impegnate a difendere la propria vita e l’emancipazione femminile contro l’oscurantismo religioso dell’I.S. Si tratta, ovviamente, di elementi presenti, ma assolutamente insufficienti e svuotati di ogni contenuto politico. Insomma, le guerrigliere curde vengono prese in considerazione dai media italiani in quanto donne, e non in quanto militanti di organizzazioni politiche con delle idee e delle proposte politiche precise, rivoluzionarie.
A ciò si aggiunge lo stupore – frutto di una mentalità radicata – che, legando spesso inconsciamente la funzione femminile a quella della riproduzione (della forza lavoro), si prova davanti alla scelta, da parte di coloro che sono deputate a «dare la vita», di partecipare a combattimenti in cui «danno la morte». Una convinzione diffusa è, infatti, quella della incompatibilità femminile con la guerra: da qui lo stupore di vedere donne armate che combattono. Si tratta, del resto, degli stessi contenuti nelle affermazioni polemiche di quanti si oppongono alla presenza femminile negli eserciti o che si meravigliano della scelte delle donne di praticare la lotta armata. A questo proposito, la politologa e femminista Jean Bethke Elshtain, nel volume Donne e guerra, ha sottolineato proprio l’importanza della costruzione di un divario storico tra «chi dà la vita e chi la toglie»: al suo interno, le donne sarebbero suddivise tra «le poche feroci» e le «molte non combattenti»; gli uomini tra i «molti militanti» e i «pochi pacifici». Le donne, quindi, nel senso comune possono essere vittime di guerra, ma non iniziatrici né le esecutrici perché a esse è imposto un ruolo di riproduzione della vita (e della forza lavoro) che entra in conflitto con essa.
La spiegazione della “superficialità” dei media nella rappresentazione delle combattenti curde è presto detta: se, da un lato, l’immagine delle guerrigliere curde è utile alla propaganda contro l’I.S., il nemico che condividono con l’occidente tutto (almeno apparentemente, perché in realtà la costituzione di un califfato in Medio oriente – ovviamente ostile all’Iran, alla Siria e, in ultima analisi, alla Russia – potrebbe non essere così ostile agli interessi turchi, statunitensi e sauditi nell’area), dall’altro il contenuto radicale della loro militanza politica non può essere veicolato dai media italiani come legittimo. Del resto l’uso strumentale delle combattenti donne risulta chiaro da commenti come questo di Gad Lerner, a cui la notizia (probabilmente falsa) della decapitazione di tre di esse serve per poter presentare la lotta dei curdi contro l’I.S. come qualcosa che ha a che fare con l’«emancipazione femminile», da cui l’I.S. sarebbe spaventato. Del resto, secondo lui, «i vigliacchi decapitano anche le donne», come se decapitare una donna combattente fosse più grave che decapitare un combattente maschio: alla faccia dell’antisessismo occidentale. Sul discorso dell’«anche le donne», tra l’altro, si è discusso a lungo. Ida Farè e Franca Spirito, in un volume sulle donne e la lotta armata, hanno ad esempio scritto che
quell’anche è la chiave del problema. Perché si dice anche? Probabilmente per due motivi, uguali e contrari, al maschile e al femminile. Al maschile perché l’uomo non smette mai di stupirsi di fronte a una donna che diventa come lui. Al femminile, perché la donna, a furia di sentirsi altra e diversa, tende a rifiutare qualsiasi cosa che assomiglia vagamente all’uomo. E la guerra a prima vista assomiglia proprio all’uomo
Altrettanto significativo è questo commento ad una foto di guerrigliere curde di Gennaro Carotenuto che, oltre ad usare la misteriosa espressione «le nostre donne» (di chi? Le sue?), parla delle guerrigliere curde abbandonate «alla loro sorte, allo stupro e allo sterminio» da Usa, Turchia e Nato (si aspettava il contrario? E sarebbe auspicabile?): in questo modo riconduce nuovamente le figure delle combattenti a quelle di donne vittime della guerra.
E persino il prode Magdi “Cristiano” Allam, su facebook, posta da giorni immagini glamour delle combattenti curde (vedi e vedi), affermando che «la Storia le ricorderà per il coraggio con cui donano la propria vita per salvare i valori fondanti della nostra civiltà»: ma, siamo sicuri, il modello di civiltà proposto dal Pyd è ben diverso da quello del nostro Magdi (e dei suoi fans, che infatti commentano con espressioni come «donne con le palle!»).
Ma chi sono queste guerrigliere? Cosa è il Pyd? Cosa sta succedendo in Rojava? Sono queste le domande fondamentali a cui, guardando le foto delle guerrigliere che sono veicolate dai social network e dai siti internet, sembra impossibile trovare una risposta.
La situazione politica del «Kurdistan» (uno stato che non esiste) è ovviamente molto complessa e rimandiamo, per un’analisi più dettagliata, a questi articoli di mazzetta , alla rivista «Nunatak» e al fondamentale storify di wuming. Va però detto che la Rojava, cioè il Kurdistan siriano, è da quasi tre anni al centro di un processo rivoluzionario guidato dal Pyd, che vi ha unilateralmente costruito una regione autonoma. Al momento dell’entrata in scena dei cosiddetti “ribelli siriani”, infatti, i curdi non si sono schierati né con Assad né con i suoi oppositori, ma ha piuttosto scelto di auto-amministrare il proprio territorio (la Rojava, appunto), combattendo contro chiunque lo minacciasse (i jihadisti, i “ribelli siriani”, i sostenitori di Assad, dal luglio di quest’anno l’I.S.). All’interno di quella che è stata definita la “Rivoluzione in marcia in Rojava” è stata proclamata una Costituzione dal contenuto progressista:
Con l’intento di perseguire libertà, giustizia, dignità e democrazia, nel rispetto del principio di uguaglianza e nella ricerca di un equilibrio ecologico, la Carta proclama un nuovo contratto sociale, basato sulla reciproca comprensione e la pacifica convivenza fra tutti gli strati della società, nel rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, riaffermando il principio di autodeterminazione dei popoli. Noi, popoli delle Regioni Autonome, ci uniamo attraverso la Carta in uno spirito di riconciliazione, pluralismo e partecipazione democratica, per garantire a tutti di esercitare la propria libertà di espressione. Costruendo una società libera dall’autoritarismo, dal militarismo, dal centralismo e dall’intervento delle autorità religiose nella vita pubblica, la Carta riconosce l’integrità territoriale della Siria con l’auspicio di mantenere la pace al suo interno e a livello internazionale.
La Carta riconosce l’uguaglianza di tutti i cittadini e di tutti i gruppi ed è basata sull’autogoverno dei diversi cantoni che costituiscono la Rojava. All’articolo 15 le Ypg vengono riconosciute come la sola forza militare dei tre cantoni, avente lo scopo di proteggere e difendere la sicurezza della regione autonoma. All’articolo 27, invece, si afferma il diritto inviolabile delle donne a partecipare alla vita politica, sociale, economica e culturale del paese. All’articolo 28 si afferma l’uguaglianza di uomini e donne e l’impegno della Carta costituzionale per l’uguaglianza femminile e l’eliminazione della discriminazione di genere. All’articolo 30 vengono riconosciuti i diritti all’istruzione, al lavoro, alla salute e a una abitazione adeguata. All’articolo 42 si afferma invece che il sistema economico nella provincia deve essere diretto a garantire il benessere generale, garantendo finanziamenti per la scienza e la tecnologia: esso deve essere rivolto ad assicurare le esigenze quotidiane delle persone e ad assicurare una vita dignitosa.
Si tratta, in altre parole, di un’esperienza che si oppone al capitalismo – al cui modello di produzione anche l’I.S. si richiama: è bene, infatti, chiarire che il califfato avversa la liberaldemocrazia ma non il capitalismo – e all’imperialismo di cui i curdi sono storicamente vittime: un’esperienza rivoluzionaria – con una matrice, per quanto diluita sempre più col trascorrere del tempo, marxista-leninista e una storia di lotta armata alle spalle – che non può essere vista di buon occhio in occidente. Per questo va neutralizzata e depotenziata dietro l’immagine glamour delle guerrigliere curde.
La presenza di questa regione autonoma, inoltre, non è mai stata vista di buon occhio dalla Turchia, che applica storicamente una politica imperialista contro i curdi del suo territorio – particolarmente ricco di bacini idrici e, come anche la Rojava e il Kurdistan iracheno, di petrolio – e che ha armato e sostenuto dal punto di vista militare e logistico i gruppi che volevano spezzare la resistenza della Rojava. Inoltre, la Turchia ha, finora, non solo consentito il transito dei combattenti dell’I.S. attraverso le sue frontiere ma li ha anche finanziati e armati, almeno dall’inizio della crisi siriana. Non sorprende, quindi, che gli studenti che manifestano in piazza in Turchia, paese membro della Nato sul cui ingresso nell’Ue si è molte volte discusso, per la Rojava vengano colpiti e uccisi da colpi di pistola sparati dalla polizia.
Uno dei motivi dell’ostilità del governo turco, inoltre, è il sostegno alla Rojava del Pkk di Ocalan (vedi) che, nonostante il fatto che nel marzo 2013 abbia dichiarato conclusa la stagione della lotta armata, è ancora considerato un’organizzazione terroristica dagli Usa, dall’Ue e dalla Turchia stessa. Da qui la difficoltà a fare riferimenti agli ideali delle combattenti curde: dovrebbero ammettere che esse sono considerate delle «terroriste», determinando un cortocircuito in cui le «terroriste del Pkk e dei partiti a esso legati» combattono contro «i terroristi dell’I.S.».
Da anni, ormai, il Pkk di Ocalan – attraverso elaborazioni teoriche non sempre interamente condivisibili dal nostro punto di vista, ma certamente figlie della situazione politica in cui sono maturate – ha abbandonato la proposta di costituire uno stato curdo in nome, invece, della costruzione di una federazione di comunità autogovernantisi al di là dei confini nazionali, religiosi, etnici, basate sulla partecipazione dal basso, la parità di genere e il rispetto della natura: questo confederalismo democratico è quello realizzato praticamente dalla carta costituzionale della Rojava. Dopo la rinuncia alla lotta armata, le milizie del Pkk non hanno smobilitato, ma si sono spostate in Siria per difendere la rivoluzione della Rojava, oltre ad aiutare i curdi iracheni sempre contro l’I.S. Nelle ultime settimane migliaia di curdi del Pkk – uomini e donne – hanno sfondato il confine con la Turchia e sono andati ad aiutare i loro compagni siriani in particolare a Kobane, la città della Rojava assediata dall’I.S.: definita la «Stalingrado del Vicino Oriente», è il luogo dove in queste ore si sta combattendo casa per casa.
Lo stupore davanti alle guerrigliere curde, inoltre, è figlio del pregiudizio eurocentrico secondo cui nei paesi di religione islamica le donne sarebbe duramente discriminate e non tiene conto del fatto che nella cultura curda le donne soldato non sono certo una novità (vedi): anzi, la loro presenza sarebbe stata testimoniata già nel XII secolo, ai tempi del sultano Saladino. Oggi, le donne costituiscono una percentuale molto alta tanto delle milizie del Pkk (l’Hpg) tanto di quelle del Pyd (le Ypg): la liberazione delle donne, infatti, è sempre stata uno dei cardini nell’impostazione marxista-leninista dei due partiti. Come ha detto Bese Hozat, la co-presidente del Consiglio Esecutivo della Kck, l’Unione comunista curda (il braccio politico del Pkk), in una recente intervista, infatti, il Pkk
ha messo le donne al centro della liberazione sociale, e la lotta delle donne al centro della lotta nazionale. […] Migliaia di donne […] sono partite per le montagne e hanno formato un esercito, hanno combattuto coraggiosamente contro il sistema di sfruttamento e distrutto la mentalità che afferma che la guerra è una cosa da uomini. La lotta di liberazione delle donne curde che stanno in montagna non è solo contro l’esercito turco, ma è anche contro la mentalità maschilista dominante e il sistema crudele di sfruttamento che ha creato. […] Questa guerra ha portato a un grande cambiamento sociale e di trasformazione, ha distrutto la mentalità comune contro le donne, ha cambiato i costumi e la cultura di genere, e ha permesso alle donne curde di diventare soggetti in tutti i settori della vita, di assumere un ruolo attivo nella vita sociale e politica, e di guidare sommosse civili e forme di resistenza pubblica. […] Il movimento del Pkk non si è mai dato come una lotta etnica. Quelli che affermano che il PKK lo ha fatto sono i nemici del partito e del popolo. L’ideologia del PKK sostiene la libertà e l’uguaglianza. Il PKK è un movimento socialista democratico contro il nazionalismo, il sessismo e l’integralismo religioso, che sono tutte ideologie che conducono al fascismo, al nazionalismo e al militarismo.
Quello che i compagni e le compagne del Pkk e del Pyd hanno capito benissimo è che non ci può essere rivoluzione senza liberazione della donna e non ci può essere liberazione della donna senza rivoluzione: ogni altra interpretazione che lega la resistenza contro l’I.S. a un vago «emancipazionismo» femminile aconflittuale, invece, non è altro che un colpo ad ogni prospettiva di cambiamento radicale dei rapporti economici e sociali nella società. Le guerrigliere curde non sono una versione orientale delle suffragette britanniche di inizio secolo, ma sono militanti politiche che hanno inserito la liberazione femminile all’interno di un percorso rivoluzionario in cui essa è solo una parte.
Se tutto questo è vero, compito dei compagni e delle compagne è quello di demistificare la presentazione borghese delle combattenti curde e di far riemergere, invece, il contenuto politico delle loro scelte: un contenuto rivoluzionario incompatibile tanto con il capitalismo teocratico e fondamentalista dell’I.S. quanto con le copertine patinate su cui il capitalismo occidentale le vorrebbe relegare.