La triste parabola di SEL
Fa davvero specie la velocità con cui una buona parte di SEL abbia abbandonato il partito e corsa nelle braccia “democratiche” fino al giorno prima attaccate da sinistra. E’ bastato un risultato elettorale sopra la media neanche tre settimane prima, e tutti i discorsi d’opposizione sono stati trasformati in una condivisione politica, a parole sempre rifiutata. Quella stessa gente che qualche anno fa affollava la direzione politica di Rifondazione Comunista, oggi entra nel PD senza alcuna apparente rottura nella propria visione del mondo. Nessuna autocritica, nessun cambio di passo: nelle menti e negli intenti di questi dirigenti (lo sottolineiamo, non si tratta di militanti semplici o quadri marginali, ma di chi teneva le redini dei due partiti, PRC prima e SEL poi), un unico percorso che si conclude nella giusta (per loro) direzione.
Eppure tutto questo non può stupirci. Quando mettevamo in risalto la sostanziale convergenza fra il PRC bertinottiano e il futuro Partito Democratico, quando evidenziavamo la sostanziale continuità politica tra PD e SEL, parlavamo proprio di questo. Non tanto quella differenza antropologica (e di classe), tra i militanti dei due partiti, sempre più effimera e coincidente, ma le scelte di fondo delle due dirigenze politiche. Se la battaglia politica si riduce ad una richiesta continua di diritti civili, se il campo da gioco è quello del welfare, se tutto l’agire politico si riduce all’occupazione del piano mediatico-elettorale, possono prodursi contraddizioni momentanee ma non strategiche. Se il fine è lo stesso e gli strumenti pure, in sostanza, alla fine del percorso saranno le convergenze ad assumere centralità e non le sempre più diluite divergenze. Migliori e soci non sono allora che l’epifenomeno macchiettistico di un modo di fare politica che ancora contraddistingue i partitini della fu “sinistra radicale”. E questo discorso continuerà a riguardare anche il PRC se non romperà con questa tradizione inaugurata da Bertinotti e ancora decisiva nelle scelte politiche di quel partito. Il quale mantiene, come abbiamo sempre detto, un apparato militante sincero e proletario, al servizio però di una visione del mondo in ultima istanza sovrapponibile a quella più sinceramente democratica.
In questa spaccatura del ceto politico non esiste una possibile scelta. La parte di SEL che decide di proseguire il percorso nell’ambito della sinistra elettorale, e che andrà a convergere con Rifondazione nella probabile “Syriza italiana”, non costituisce una scelta al momento praticabile. Perché se Migliore se ne va, quel certo “migliorismo” rimane egemone anche nelle forze che in questo momento decidono di smarcarsi dall’abbraccio mortale del Partito Democratico. Se una parte di ceto politico si separa ma il piano del discorso è sempre quello diritto-umanista, civile, a-conflittuale, elettoralistico, mediatico fine a se stesso, keynesiano fuori tempo massimo, sarà sempre l’opzione “democratica” a fare egemonia, raccogliere consensi e voti, intercettare la speranza di cambiamento. Con Grillo in fase discendente, ma che ancora per qualche tempo continuerà ad essere percepito come il soggetto “alternativo” al sistema politico-istituzionale, lo spazio politico di questa “Syriza italiana” è prossimo allo zero, e comunque tutto inserito in un mondo, quello mediatico, in cui la lotta continuerà ad essere impari e in definitiva perdente. E’ allora il piano discorsivo che va cambiato, è la visione alternativa del mondo che va riproposta, nonché gli strumenti per attuarla. Non è un fatto semplice, anzi doloroso e complicato, ma è l’unica possibilità per questi soggetti di riacquisire quel prestigio politico completamente azzerato in questi anni.