¡ Vamos a limpiar el Venezuela de fascistas!
Non ce vonno sta’. Il commento non è molto elegante, ma rappresenta al meglio la situazione in Venezuela da quasi un anno a questa parte: le oligarchie venezuelane, legate alle multinazionali e agli Stati imperialisti, speravano nella morte di Hugo Chávez per riprendersi il Venezuela. Nella loro lettura del contesto venezuelano, solo il carisma (e la capacità di intimidazione) del Comandante Chávez avevano condotto la Repubblica bolivariana fuori dal neoliberismo (che ha avuto nel Latino America la sua culla privilegiata). Tolto Chávez – vittima di una strana epidemia di tumore che ha colpito molti leader anticapitalisti nel Latino America – il Venezuela si sarebbe riallineato alla banda di briganti amica di Hillary Clinton. Questa era la lettura statunitense. Una lettura sbagliata, come spesso succede. Come quando, nel 1961, gli Usa fecero precedere l’invasione della Baia dei Porci dal lancio di armi con le quali, nella speranza di Eisenhower e Kennedy, i contadini si sarebbero rivoltati contro Fidel. Finì con i contadini che usarono quelle armi per bloccare l’avanzata dei mercenari Usa, finì con “c’erano dei porci in una baia”.
Allo stesso modo, alle elezioni dello scorso 14 aprile il popolo venezuelano confermava il processo rivoluzionario in corso, per quanto la destra avesse adottato una strategia “mista”, unendo foraggiamenti al sottoproletariato, lusinghe al ceto medio e violenza contro i chavisti. Da quel momento le forze imperialiste decidono di calcare la mano, dismettendo l’abito legalitario – usato per presentarsi alla comunità internazionale – e organizzando scontri di piazza, con l’ovvio obiettivo di destabilizzare il Paese, mettere in ginocchio la sua economia e indurre gli Stati occidentali (ben lieti, del resto, di normalizzare il Venezuela) a interventi economici, politici, magari anche militari. Nulla di nuovo, del resto: accadde durante la presidenza di Chávez, con le violenze che condussero al golpe del 2002, e subito dopo la sua morte.
I fatti di questi giorni si inquadrano, di conseguenza, in un contesto del genere e come tali vanno letti, anche e soprattutto da quei militanti comunisti che hanno meno dimestichezza con il Latino America e le sue dinamiche. Non ingannino “i giovani che protestano”, “gli universitari scesi in piazza”, “la protesta della popolazione in crisi economica” (se è per questo, considerando i parametri economici, in Italia dovremmo avere dieci rivoluzioni al giorno): è il gioco delle parti, lo stesso che induce i giornali mainstream (ormai senza nessuna differenza tra centro-sinistra e centro-destra, come non ci stancheremo mai di ricordare) a cavalcare la protesta. Tanto che l’ineffabile Rocco Cotroneo, il tizio che parla di Venezuela (e Cuba) dalle spiagge di Copacabana, sul Corriere della Sera si arrabbiava: “Perché gli studenti cileni [negli ultimi anni all’avanguardia del movimento studentesco latinoamericano] non solidarizzano con gli studenti venezuelani?”. Già, perché, brutto stronzo?! Perché ne percepiscono la diversità rispetto ai propri obiettivi politici e ne tracciano i poteri che hanno alle spalle.
È utile, a questo punto, precisare una cosa: il Venezuela non è un Paese assediato da una protesta popolare contro il governo in carica. Chi dice una cosa del genere è palesemente in malafede e non merita neanche la concessione del dubbio su un’eventuale ignoranza. Il Venezuela è un Paese in cui la maggioranza della classe popolare (e non solo) è e continua a essere partecipe della rivoluzione chavista, nel solco di Simón Bolívar: la sua voce è una voce vera e visibile, come nella foto a corredo di questo post, con migliaia di lavoratori del settore petrolifero in piazza per il contratto collettivo e in appoggio al governo. Soprattutto, è una popolazione che difende concretamente la sua rivoluzione, scontrandosi con i nemici di classe, uccidendo e venendo uccisa come in ogni guerra partigiana. Sta a noi, comunisti, internazionalisti, chavisti, difendere – nelle modalità che possiamo mettere in campo – il sogno di Bolívar, l’alleanza economica dell’Alba, il riscatto delle popolazioni oppresse dal liberismo più selvaggio. Lo stesso che adesso è sbarcato sull’altra sponda dell’Atlantico.