L’artista e le lotte di classe, ovvero: quando la critica delle armi impone una visione del mondo. Appunti politici attorno al film Giù la testa di Sergio Leone
La Rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La Rivoluzione è un atto di violenza
Mao Tse Tung
Non è immediato oggi cogliere il significato della citazione di Mao che apre il film di Leone. Eppure, da qui bisogna partire per comprendere il senso politico dell’opera. A prima vista, l’introduzione del presidente cinese, ancora in vita al momento della realizzazione del film, appare totalmente fuori luogo, al più ridondante. Per quanto il prolifico e altalenante filone del “western all’italiana” abbia contribuito alla vitalità artistica di un cinema ormai in declino, non può essere certo ascritto a quel movimento cinematografico “impegnato” caratteristico di quegli anni. Allo stesso tempo, non può bastare un accostamento superficiale tra violenza degli eventi narrati e ineludibilità storica di quest’ultima, certificata dalla citazione utilizzata come giustificazione della violenza presente nel film. Il fatto è che Giù la testa non è un western, ma un film politico, un film sulla Rivoluzione e sui mezzi necessari alla lotta per il potere. E Mao Tse Tung non viene usato per giustificare un discorso, men che meno per omaggiarne la figura, ma per dare una linea politica.
Gli anni Settanta in Italia erano anni di violenza politica e di repressione. Nel vortice politico che risucchiò una generazione di militanti e che costrinse il mondo intellettuale a schierarsi da una parte o dall’altra (quasi sempre dall’altra), Sergio Leone interviene a gamba tesa. Scegliendo di schierarsi, non si lascia attrarre da giustificazionismi di sorta, come se l’uso della forza delle classi subalterne fosse determinato solo dal comportamento corrotto delle elite di potere. Sergio Leone decide di stare dalla parte della Rivoluzione dicendo che questa non può darsi senza la lotta armata. E lo dice nel momento in cui, in Italia, questa prenderà vita. Probabilmente, la spirale di eventi che porteranno migliaia di militanti a prendere sul serio questo discorso provocherà una crisi di rigetto da parte di tanta parte di mondo intellettuale non ancora pronto al salto definitivo verso l’ignoto rivoluzionario, dove non esistono posizioni di rendita intellettuale tali da assicurare comodità. Il blocco cinematografico di Leone dopo questo film non va pertanto letto unicamente come “pausa intellettuale” o “vuoto creativo”, ma anche come crisi politica ed umana. La crisi di chi, dopo aver spiegato come si fa, poi viene costretto a cimentarsi con una realtà sempre più vicina alla teoria.
Sebbene inserito nel filone western, Giù la testa non è un western. Non è ambientato nei nascenti Stati Uniti alla conquista dell’ovest, non ha come protagonisti banditi o bovari in cerca di fortuna, non descrive una lotta fra guardie e ladri in una terra di nessuno dell’incerto controllo statale in fase costituente. E’ invece il racconto della Rivoluzione, delle sue contraddizioni, dei suoi passi falsi, narrata da chi comprende che un evento di tale portata non può essere preso frontalmente. Il Messico del 1916 è allora il posto ideale per gettare questo sguardo obliquo avendo come obiettivo ciò che succede in Italia negli anni Settanta.
Il film ruota attorno a tre dinamiche decisive nel discorso politico di quegli anni: l’incontro/scontro tra classe sociale e avanguardie politiche; la necessità della lotta armata quale sostanza ineludibile di ogni discorso politico rivoluzionario; le asprezze della lotta e della repressione, soprattutto inerenti al cedimento del fronte interno tramite la dissociazione, cioè il tradimento politico.
Il discorso sopra affinità e divergenze tra la “classe in sé” e i militanti politici è sempre stato, e lo è tutt’ora, uno dei nodi centrali di ogni percorso organizzativo. Nell’opera, la parte del proletario senza interessi politici, disincantato e cinico, ma con un istintivo odio di classe verso i ricchi e il potere, viene simboleggiato da un bandito, Juan Miranda, che insieme alla sua famiglia rapina diligenze e vive come può alla giornata sognando il grande colpo alla banca. Il combattente politico è invece personificato da un militante dell’IRA, John Mallory, in fuga dall’Irlanda ormai braccato dalla repressione, e che giunge in Messico per portare a compimento quella rivoluzione non riuscita in patria. Sebbene repressione e delusioni umane e politiche abbiano anche in lui prodotto la medesima disillusione e cinismo, rimane evidente la differenza, che nel film viene descritta quasi come antropologica, fra i due personaggi. L’uno politico, l’altro no.
Purtroppo, nonostante il coraggio del regista nel trattare il tema, il rapporto tra i due risente di una visione idealista, in un certo senso tipica anche oggi, del discorso sopra l’incontro tra avanguardia politica e base sociale di riferimento. Il proletario e il militante sono due esseri socialmente diversi quindi, in ultima istanza, incomunicanti: il primo vive sulla pelle quelle contraddizioni che il secondo legge sui libri, e questo fatto non può che produrre una contraddizione. La fiducia rivoluzionaria del secondo è viva solamente grazie alla distanza che separa questo dalle reali condizioni di vita dei subalterni. Non c’è possibile convergenza: grazie all’esperienza di lotta fatta insieme, il proletario giungerà alla “presa di coscienza” rivoluzionaria solo quando il militante giungerà all’estremo disincanto delle ragioni della lotta. Riproducendo il classico schema, piccolo-borghese e sovente smentito dalla storia, per cui di fronte alle concrete asprezze della lotta, sarà il proletario a rimanere in piedi e il militante a cedere di fronte alla repressione. Nonostante il militante dell’IRA non ceda, tutto il mondo politico attorno a lui e un mondo costellato da dissociazioni, da cedimenti alle torture, di delazioni che reiterano la percezione di una presa di coscienza libresca che di fronte alla crudezza della lotta viene meno. Ma il sentimento che persiste lungo tutto il film è quello della sfiducia: nonostante il percorso assieme, per il proletario la fregatura è sempre dietro l’angolo, esemplificato da un discorso che il bandito Miranda fa al militante irlandese :
“Quelli che leggono i libri vanno da quelli che non leggono i libri, i poveracci, e gli dicono: Qui ci vuole un cambiamento! E la povera gente fa il cambiamento. E poi i più furbi di quelli che leggono i libri si siedono dietro un tavolo e parlano, parlano e mangiano, parlano e mangiano; e intanto che fine ha fatto la povera gente? Tutti morti! Ecco la tua rivoluzione! Per favore, non parlarmi più di rivoluzioni!”
Il bandito messicano riesce, al contrario, ad accogliere in pieno le ragioni della lotta, divenendone suo malgrado uno dei leader, solamente di fronte alla morte dei suoi figli, cioè quando vive sulla propria pelle le crudeltà della repressione statale. Anche qui, l’idealismo di maniera impedisce al film di essere utilizzato come paradigma. Il fatto è che, descritti come antropologicamente diversi, può prodursi un incontro umano tra le due figure, ma difficilmente un incontro politico slegato dall’amicizia o dall’esperienza diretta, capace di generalizzare quell’incontro. La storia delle lotte di classe, in Italia come in America Latina o in Asia, smentisce tale interpretazione, non a caso reiterata dal racconto borghese delle rivoluzioni, per cui queste sono il prodotto di manipolazioni populiste da parte di una elite in cerca di potere. Non c’è alcuno scarto tra proletario e militante politico, perché il militante politico rivoluzionario è, nella grande maggioranza dei casi, un proletario. E se il percorso della fatidica “presa di coscienza” è variegato, non sono “i libri” a determinare la volontà rivoluzionaria. Semmai, elementi culturali possono intervenire a strutturare questa volontà, ad indirizzarla verso questo o quel percorso, ma non c’è contraddizione o distanza fra classe sociale e sue avanguardie.
Al contrario, il discorso dove Sergio Leone riesce ad esprimere un coraggio e una chiarezza inusuali per un certo tipo di intellettualità è quello sulla lotta armata. Come detto in precedenza, proprio nel momento in cui anche in Italia iniziano a nascere certe esperienze di lotta, il regista fa una scelta di campo e indica una direzione: il discorso rivoluzionario concerne l’uso della forza, e l’uso della forza va organizzato. Non c’è alcun cedimento umano o pietistico intorno al tema. Nel film, i nemici politici vanno eliminati, senza ripensamenti. Non è odio personale contro questo o quell’esponente del governo o dell’esercito, ma una violenza politica che concerne la lotta per il potere. Nel momento della lotta la parola passa alla razionalità politica, senza spazio alcuno alla filosofia o al moralismo. Anche le continue riflessioni critiche tra i due protagonisti scompaiono durante il conflitto, perché questo impone una scelta di campo, e a questa scelta non è possibile sottrarsi. La strada per il potere rivoluzionario è fatta di sangue, che lo si voglia o meno. Tanto vale organizzare questo sangue, con scientificità, senza avventurismi.
Altro discorso centrale dell’opera è il rapporto con il tradimento. La asprezze della lotta provocano cedimenti difficilmente razionalizzabili. Dapprima in Irlanda, poi in Messico, il militante dell’IRA John Mallory è costretto a subire il tradimento dei suoi compagni, la dissociazione, la delazione sotto tortura. Di fronte al dramma del compagno che cede alla tortura, Leone-Mallory indica due strade, simbolo dell’impossibilità di razionalizzare l’evento. In Irlanda, Mallory uccide il compagno (e suo migliore amico) Sean Nolan (di qui il tema musicale di Ennio Morricone, Sean Sean) che, cedendo alle torture, fa arrestare il resto dell’organizzazione. La scelta estrema sarà motivo del disincanto del protagonista, che viene riprodotta in Messico: qui è il dirigente dell’organizzazione, il dottor Villega, che non regge la brutale repressione, mandando decine di rivoluzionari alla fucilazione. Di fronte alla riproposizione dell’evento, Mallory decide di non decidere, concedendo al traditore di vivere. Questa scelta imporrà una redenzione del traditore, che troverà una morte da eroe nella battaglia per arginare le forze militari mandate a sconfiggere i rivoluzionari. La morte da eroe cancella il cedimento sotto tortura? A questa domanda il regista non risponde. Di fronte al cedimento (qui parliamo del tradimento dovuto a tortura fisica, non alla dissociazione o al pentimento per meri tornaconti personali) solo due strade si aprono: il ritiro dalla politica o la morte in battaglia. Non esiste una terza strada. Il coraggio e la capacità nel trattare il tema, ancora oggi dovrebbero illuminare schiere di intellettuali e dirigenti politici. Soprattutto nel nostro paese, la via della dissociazione ha aperto la strada al ritorno in politica. Non possiamo che rimpiangere allora l’indicazione di Leone.
Il film oggi non può che reiterare la propria “inattualità”. La possibilità delle classi subalterne di razionalizzare l’uso della forza è un’immagine espunta dal discorso politico. L’unica violenza ammessa è la reazione rabbiosa di fronte alla povertà, rabbia e violenza descritte come tentativo sottoproletario di accedere al consumismo senza freni, unica loro possibilità di soddisfazione. Il “riot”, per forza di cose impolitico, viene represso ma non criminalizzato perché funzionale ad un discorso di potere. La valvola di sfogo della violenza senza obiettivi può ben essere trattata dalla forza pubblica alla stregua della comune criminalità, perciò in qualche modo sistemica e dunque fisiologica. Ciò che va espunto dalla storia non è allora la violenza in quanto tale, ma la sua organizzazione politica. E’ l’avanguardia politica che organizza la forza che va repressa senza alcun termine di mediazione. Laddove si presenta, è d’altronde palese il tentativo di ricondurre l’evento a fatto d’ordine pubblico, da risolvere attraverso l’uso della polizia. Tanto all’interno dei propri confini quanto in operazioni che non a caso vengono definite di polizia internazionale. Il nemico politico non è pensabile, ma questo può essere descritto solo nei termini del terrorista o del criminale comune.
Eppure, nonostante la distanza discorsiva difficilmente colmabile tra l’opera di Leone e la realtà odierna, la banca di Mesa Verde trasformata in prigione politica descrive ancora con forza impareggiabile la violenza del capitale, che non è solo o soltanto una violenza economica, quanto una violenza politica. Nel momento della lotta, anche l’icona dello sfruttamento economico, la banca, può ben servire alla ragione di Stato. Le casseforti un tempo colme di denaro possono rapidamente adattarsi a celle per militanti, se lo impone il corso degli eventi, cioè la lotta di classe. Non è rapinando una banca che si cambia la ragione sociale di quell’istituzione allora, ma attentando al potere politico che consente a quella banca di svolgere quella funzione. Un discorso quanto mai attuale, in questa fase di rifiuto del politico.