Verso l’11 passando per il 28
L’assemblea di sabato scorso a Torino ha segnato l’avvio di un percorso che porterà l’eterogenea galassia dei movimenti più o meno antagonisti ad opporsi alle politiche neoliberiste dell’Unione Europea. E’ importante segnalare la via intrapresa, che conferma ciò che andiamo ripetendo da tempo: volenti o nolenti, è l’Europa il nostro terreno di riferimento e l’Unione Europea il nostro principale avversario, quello che determina lo sviluppo economico, sociale e politico dei singoli Stati. L’enorme partecipazione all’assemblea ha inevitabilmente imbrigliato un confronto dialettico che oggi è più che mai necessario. Un confronto politico inerente non solo ai contenuti con cui riempire quella piazza e quelle giornate di mobilitazione, ma che verta più in generale sulla direzione che vogliamo intraprendere come movimenti di classe. Quali obiettivi porci, sia nel breve che nel lungo periodo. E’ allora importante mettere dei punti su alcuni ragionamenti, vista la confusione che emerge quando si toccano tematiche europee.
Anzitutto, è bene non farci stringere in un dibattito pro o contro l’Europa, che pure è emerso sabato. Una dicotomia fuorviante, che porta acqua solo al mulino delle destre europee nelle loro varie articolazioni, anche mascherate. Il problema non è allora l’Europa, espressione geografica di riferimento per ogni nostra lotta e di ogni nostro ragionamento. Il problema è l’Unione Europa, quale costruzione politica che esprime concretamente una visione del mondo e dei rapporti di produzione.
Economicamente, la UE è la risposta del capitalismo nella sua fase di crisi da sovrapproduzione. L’allargamento dei mercati e dei soggetti produttivi, la caduta del saggio di profitto, l’espansione dell’economia finanziaria, sono alcuni dei fattori che non consentono più alcun margine di sviluppo per il cosiddetto capitalismo molecolare, distribuito sul territorio, della piccola e media impresa. La soluzione per questo stallo produttivo sta nella concentrazione dei capitali. La concentrazione dei capitali ha bisogno di popolazione e territorio adeguati che sorreggano tale processo, e questo può avvenire solo attraverso la compenetrazione economica del continente.
Politicamente l’Unione Europea è la risposta della borghesia internazionale alle lotte di classe. E’ una visione del mondo, non solo un mero processo economico. E’ lo strumento attraverso il quale normalizzare i rapporti politici interni ai vari Stati, rendere la competizione continentale, dunque più gestibile, e allo stesso tempo svuotare di senso alcune istituzioni tipiche della democrazia liberale. E’ lo strumento attraverso il quale avviene la pacificazione politica.
Questo processo è oggi sotto gli occhi di tutti, evidente anche a chi fino a ieri negava il problema. Oggi dunque non si tratta di rifiutare l’Europa, ma di combattere l’Unione Europea, affermando la sua intrinseca irriformabilità, dunque lottare per la sua abolizione. L’Unione Europea è una forma di governo della produzione e delle lotte di classe: per questa ragiona va abbattuta e non riformata. Inoltre, larga parte della popolazione europea ha già percepito da sé il problema. L’assenza di un’analisi e di una proposta chiara delle sinistre impedisce alle popolazioni lavoratrici di trovare quegli strumenti tali da costruire una risposta, cioè un’alternativa. In assenza di ciò, guardano a destra, cioè a chi propone loro delle soluzioni. Magari volgari, reazionarie o inconcludenti, ma risposte all’apatia delle sinistre bloccate dal timore storico di fare egemonia. Il problema dei movimenti odierni non è allora il loro tentativo egemonico, come qualcuno cianciava sabato a Torino, ma l’assenza di un discorso egemonico. I movimenti dovrebbero cioè produrre una nuova egemonia, non verso l’interno delle varie strutture contendendosi le spoglie di un “Movimento” che non esiste più, ma verso quegli strati sociali affini ai nostri discorsi politici. Allo stesso tempo, tale egemonia non può essere generica e includente oltre ogni limite, cercando di inglobare tutto e il contrario di tutto. Dev’essere un’egemonia di classe, dovrebbe cioè saper parlare a quei settori sociali inseriti nei processi produttivi di sfruttamento. Non è il movimento “pigliatutto” l’obiettivo, quanto la ricostruzione di un movimento di classe. E bisognerebbe anche essere capaci di distinguere processi di impoverimento a processi di nuova proletarizzazione, e i due termini non sono né sinonimi né affini. Non è il piccolo borghese impoverito il soggetto da organizzare, ma il nuovo proletario. E fra nuovo proletario e borghese impoverito ci possono essere delle convergenze tattiche ma difficilmente un percorso comune.
Se questo discorso è valido per l’orizzonte europeo, bisogna saperlo declinare nei singoli contesti, a partire dal nostro paese. E nel nostro paese il soggetto politico costruttore di quella visione del mondo è il Partito Democratico. Sebbene condiviso da altri attori politici, è il PD la forza trainante di questo processo. Siano stati Amato o Ciampi o Prodi prima, Veltroni, Letta o Renzi oggi, il problema del paese Italia non è Renzi e il renzismo, ma il PD e il discorso europeista. Dovremmo evitare allora di personalizzare troppo un discorso che potrebbe torcersi contro. Non è questa o quella corrente interna al PD che dev’essere combattuta, ma quel partito stesso nella sua totalità. E, con esso, quelle forze politiche che, da sinistra, ancora contribuiscono a legittimare quel partito tra le fasce popolari del paese. In sintesi, non è più possibile immaginare anche solo in astratto alcuna forma di collaborazione con quell’organizzazione, neanche a livello locale.
Questi discorsi, che abbiamo provato ad accennare il 31 a Torino, costituiranno la cornice ideale della nostra attività politica che ci porterà di cui all’estate ad organizzare, da una parte, il corteo dei sindacati conflittuali del 28 giugno a Roma, e che poi confluiranno nella giornata dell’11. Due momenti decisivi e sinergici, che possono e devono viaggiare congiunti. Ma l’estate è solo l’avvio di un percorso di contestazione radicale al semestre italiano di presidenza della UE. Per questo, infatti, abbiamo sentito la necessità di guardare nel medio periodo cercando di organizzare un contro semestre europeo che possa far convogliare la necessità di opposizione alla UE che emerge dalla società. Convinti che prima o poi anche chi oggi fa finta di niente dovrà fare i conti con l’Unione Europa e le contraddizioni che questo processo capitalista si porta dietro.
Come abbiamo sentito dire da un compagno in una recente assemblea, lottare contro il proprio imperialismo è sempre più complicato che combattere un imperialismo esterno e lontano da sé. Quando, a ridosso della Prima Guerra Mondiale, grande parte della sinistra europea di schierava convintamente con le borghesie imperialiste nella loro lotta per la spartizione delle aree produttive europee, pochi rivoluzionari seppero leggere la vera posta in palio che si celava dietro lo scontro e assumere una posizione di rifiuto radicale della guerra imperialista.
Quando negli anni cinquanta la guerra di liberazione algerina impose alla sinistra francese di dover scegliere da che parte stare, questa scelse l’appoggio al colonialismo e al nazionalismo francese contro le popolazioni algerine in lotta. Solo pochi compagni seppero interpretare la politica francese come imperialista e la lotta algerina come anti-imperialista. Oggi si tratta proprio di questo. Saper rompere i ponti con quella sinistra che ancora una volta decide di non schierarsi, di tergiversare sperando di spostare sempre altrove il centro del discorso, appoggiando il discorso imperialista della borghesia internazionale. E’ allora venuto il tempo di saper parlare ad un pezzo di società distante dai nostri circuiti ma uguale nel suo sfruttamento. Il voto europeo dello scorso 25 maggio ha certificato due campi politici contrapposti e antitetici. Da una parte chi si riconosce nell’attuale sistema politico ed economico; dall’altra chi non ha più alcun interesse a legittimarlo, visto come altro da sé. Organizzare quel campo è l’obiettivo.