Il coraggio di cambiare paradigma per una nuova stagione politica: Utopie Letali di Carlo Formenti
Con la caduta dei socialismi reali nell’89 e la conseguente scomparsa o ridimensionamento dei partiti comunisti legati a quell’esperienza, la sinistra – soprattutto italiana – è stata egemonizzata di fatto da un insieme di teorie e suggestioni definite, per necessità di sintesi, post-operaismo. Un insieme politico in realtà abbastanza eterogeneo, ma che ha saputo ricostruire una narrazione conflittuale di fronte alla sconfitta storica del movimento operaio e delle sue avanguardie politiche degli anni ottanta. Per meglio dire, il post-operaismo è figlio diretto di quella sconfitta, e allo stesso tempo la sua rimozione. Nonostante le differenze, anche grandi, insite nei diversi filoni post-operaisti e fra le diverse città, alcuni punti fermi tuttavia sono riscontrabili. Soprattutto, comune alle varie tendenze è la rottura con il Novecento quale secolo del primato del politico e della “parzialità organizzata” in vista di una fuoriuscita dal controllo capitalistico della produzione, in favore di un discorso tendenzialmente interclassista in cui viene esaltata la diretta politicità dei soggetti sociali, che assumono centralità politica non in base al proprio ruolo nella produzione ma piuttosto in base alla propria coscienza di sé e alla loro percezione antagonistica.
Su questa visione delle cose si innesta il discorso foucaultiano del potere pervasivo del capitale non più nella produzione, ma nella vita. Il rapporto subalterno-antagonistico non è più tra lavoro e capitale, ma tra vita e capitalismo, che eserciterebbe un biopotere totalizzante dal quale non è possibile uscire se non direttamente, rendendo vana ogni transizione che non sia direttamente la società comunista. Questa visione delle cose ha impedito sul nascere ogni discorso attorno al potere, al farsi Stato delle classi subalterne, e di conseguenza rifiutando a prescindere il momento dell’organizzazione politica separata dal momento sociale. E’ esattamente da qui che vogliamo partire, perché è qui che c’entra il punto Carlo Formenti con il suo ultimo libro, e soprattutto perché è ancora da qui che si deve ragionare per rompere con quella tradizione teorica, per costruire un nuovo modello politico nel quale inserire le lotte di classe di questo paese.
Il libro di Formenti è un libro importante, per vari motivi. Viene da un (ex) esponente di quell’area, che con coraggio raro fra gli intellettuali, opera una decisa autocritica nei suoi confronti, nonché una sacrosanta critica nei confronti dei suoi compagni di un tempo. Non ci attarderemo sui pregi del libro, che mira a smontare pezzo per pezzo quelle utopie letali del paradigma post-operaista, oggi rese obsolete non tanto da una nuova coscienza politica, ma da una crisi economica che ha rimesso al centro le questioni sostanziali del nostro agire politico, facendo pulizia delle mode filosofiche legate a quella visione del mondo. Non ci attarderemo perché le ripetiamo da anni, e perché su di esse già abbiamo pubblicato un testo, e cioè Noi Saremo Tutto, che nel contributo di Paolo Cassetta punta proprio a smontare politicamente quella visione delle cose. Vogliamo partire dal testo, non analizzarlo, per comprendere come può essere utile ad un dibattito necessario, oggi più che mai, per capire che tipo di dimensione politica costruire nel breve e nel lungo periodo. In questo senso, il grande successo che il libro ha trovato tra i compagni, e soprattutto fra ex o ancora appartenenti a quell’area, la dice lunga sulla necessità, magari non esplicitata, di fuoriuscire da un modello politico ormai inservibile.
Nonostante sia un libro necessario, apparentemente giunge in ritardo. Oggi i movimenti non subiscono più l’egemonia di organizzazioni politiche che consapevolmente portano avanti quel tipo di posizioni e di teorie. Fosse uscito dieci o quindici anni fa, avrebbe avuto ben altro impatto, e probabilmente molte delle recensioni entusiaste di oggi non si sarebbero lette, e anzi ci sarebbe stata verosimilmente la corsa al dileggio del “novecentista”, ancorato ad un mondo che non c’è più, felici di averlo demolito. Questo però è vero, come dicevamo, solo in apparenza. Nella realtà, molte di quelle visioni, non più esplicitate da organizzazioni coscienti, persistono nel dibattito pubblico di movimento. Ci sembra cioè che parte di quel paradigma rimanga ancora presente ed utilizzato, nonostante la volontà di rottura con quel passato politico. Perché?
Sebbene in questi anni molto sia cambiato, non è stato messo in discussione uno dei capisaldi del pensiero post-operaista, e cioè permane la fobia del politico, l’urgenza cioè di non separare più il momento sociale da quello politico. Ma questo è proprio il nodo gordiano da sciogliere per rompere con quella tradizione. Infatti, come giustamente dice Formenti citando Marx, se è vero che ogni lotta di classe è una lotta politica, non tutte le lotte economiche sono lotte di classe. E’ esattamente qui che si situa la frattura con l’ideologia post-operaista che i nuovi movimenti dovrebbero mettere a critica: il post-operaismo e i nuovi movimenti condividono ancora il modello economicista per cui ogni lotta sociale è già una lotta politica, e tale lotta politica è già una lotta anticapitalista. Le conseguenze di questo assunto teorico, apparentemente slegato dalle contingenze, pervadono direttamente il nostro agire politico. Se cioè ogni lotta sociale è già una lotta politica, compito delle avanguardie non sarà più quello di organizzare politicamente il conflitto, ma agire sindacalmente per sommare le varie vertenze che si producono più o meno spontaneamente. Ed è infatti l’agire para-sindacale che ha contraddistinto molte dinamiche di movimento di questi trent’anni. Il processo di costruzione di una soggettività organizzata non avviene più per sintesi, ma per sommatoria. L’obiettivo, cioè, diviene accumulare lotte sociali, non operare una sintesi per portare quelle lotte dal piano sociale e quello politico, costruendo un rapporto di forze che punti alla conquista del potere.
Da questi presupposti si deduce necessariamente che non ha più senso pensare al concetto di avanguardia politica. Si può immaginare semmai una strategia di doppio livello, che verso l’interno agisca da organizzazione politica ma che all’esterno si comporti da struttura sindacale (è da intendersi con questa parola non la burocrazia sindacale formalizzata, ma l’agire sociale dell’organizzazione). Di qui a teorizzare, consensualmente al modello post-operaista, la fine del concetto di rappresentanza, quantomeno politica, il passo è breve.
Detto questo, c’è anche un però che va subito chiarito, e che in parte giustifica tale forma mentis politica. La desertificazione delle strutture sociali intermedie che organizzavano il mondo del lavoro non consente più al politico di agire in completa autonomia, dividendosi nettamente dal momento sociale. Se nel corso del Novecento era pensabile, a ragione, fondare un partito dall’alto, cioè tramite la sintesi teorica di una posizione politica, proprio perché era presente un mondo sociale già organizzato, oggi quel contesto non esiste più, smantellato dalle continue controriforme socio-economiche che hanno sostanziato la ristrutturazione capitalista. Oggi ci troviamo di fronte ad un deserto che non è possibile sintetizzare politicamente. Oggi le organizzazioni politiche hanno nuovamente bisogno di legittimarsi socialmente agli occhi di un mondo che non ha più alcuna cinghia di trasmissione verso il politico, e dunque vede come altro da sé qualsiasi cosa tenti di sintetizzarlo dall’alto. Forse il paradigma novecentesco può ancora essere utile per il mondo del lavoro dipendente salariato a tempo indeterminato, ma non può più essere utilizzato per il lavoro precario, il lavoro nero, il non lavoro e le diverse lotte spurie che si sviluppano costantemente nei territori. E’ questo panorama che, in apparenza, giustifica la reiterazione del modello post-operaista. Se il militante politico ha necessità di ri-legittimarsi agli occhi del lavoratore, tutti i discorsi sull’avanguardia politica vengono meno, almeno in questa fase. Questa cosa è vera in parte. E’ vera perché è il contesto diverso che impone al militante politico di ri-acquisire prestigio nei territori, nei luoghi di lavoro, nelle lotte sociali, essere riconosciuto ed ascoltato e divenire un punto di riferimento. L’organizzazione politica deve tornare a sporcarsi le mani perché è finito il tempo in cui le organizzazioni sociali se le sporcavano per essa. E’ però falsa perché una tale visione porta ad accodarsi alla spontaneità sociale, anche quando fomentata dalle organizzazioni. In questo senso è proprio la lotta in val di Susa che ci conferma la sconfitta di un modello politico e la necessità di proporne uno nuovo. Se infatti nella lotta No Tav le organizzazioni sono riuscite a trasformare una lotta ambientale in lotta politica contro un modello di sviluppo, acquisendo prestigio e venendo riconosciute quali punti di riferimento, è esattamente questo che può essere generalizzato, ripetuto su scala nazionale e teorizzato.
Le lotte sociali di questo paese devono essere sottoposte ad una sintesi politica, perché laddove avviene, queste vincono, incidono nei rapporti di potere e determinano un avanzamento della classe in generale. Si trasformano, cioè, in lotte di classe, ossia in lotte antagonistiche al potere del capitale. E per fare una sintesi di queste lotte, e non una semplice sommatoria insurrezionalista, serve l’organizzazione politica. Serve pensare ed agire da partito, inteso in senso storico. Serve tornare a ragionare su quale forma partito sia adatta ai tempi, cioè efficace stante il panorama sociale desertificato sopra accennato. Serve allora ragionare su questo doppio livello: ri-legittimarsi nella società, ricostruirsi una propria credibilità, ma allo stesso tempo capire come produrre una sintesi politica, cioè capire quale tipo di organizzazione politica possa svolgere questo ruolo. Eliminare una parte di questo ragionamento schiacciando tutto il proprio discorso sull’aspetto sociale del proprio divenire non potrà far altro che alimentare le ragioni di un modello politico, quello post-operaista, che rientrerebbe dalla finestra una volta cacciato dalla porta principale. E se il piano del discorso non cambia, chi poi ne trarrà la sintesi più efficace sarà sempre chi per primo e per più lungo tempo ci ha ragionato e si è sperimentato su di esso. Ogni riferimento al 12 aprile, in questo senso, è esplicitamente voluto.