I rischi di una nuova estetica del conflitto

I rischi di una nuova estetica del conflitto

 

L’assedio ad un palazzo vuoto, elevato ad emblema feticizzato del proprio malessere, per di più da anni svuotato di concreti poteri politici che non siano la ratifica amministrativa di decisioni economiche prese all’interno delle istituzioni neoliberiste della UE, non può che farci tornare alla mente le giornate di Genova e la successiva discussione politica che qualcuno cercò di intraprendere nel valutare quegli anni e quel movimento. Una delle principali critiche politiche al movimento no-global fu proprio quella di aver edificato il livello simbolico, scenico, mediatico a protagonista assoluto, scalzando ogni dinamica materiale. Sebbene non era dentro quella zona rossa che il potere decideva per sé e per le popolazioni subalterne, ogni rivolo conflittuale doveva convergere verso l’assedio del “palazzo” (in quel caso, peraltro, una nave). In quegli anni la dinamica “assediante” fu rivolta contro i famosi “vertici” europei (la stagione dei controvertici), generando quell’accumulazione di forze che vide nelle giornate di Genova il punto culminante. Come andò a finire è storia nota. La sconfitta, politica e non (solo) militare, fu determinata proprio dalla concentrazione di tutte le proprie forze sul livello mediatico-evenemenziale, credendo di giocare alla guerriglia semiotica in un luogo e contro forze che non rappresentavano il vero nemico, ma solo la sua rappresentazione scenica (rappresentazione che comunque si incazzò parecchio e reagì alla vecchia maniera, demolendo pistola alla mano la post-modernità). Ma un palazzo (o una zona rossa, il che è lo stesso), vuoto e inoperante, elevato a simbolo del potere, non può produrre un conflitto effettivo, ma solamente una sua estetica. Non può cioè incrinare i meccanismi che sostanziano quel potere, ma unicamente simulare un conflitto ad uso e consumo dei media. Infatti, i soli interessati alla giornata di sabato, oltre ai turisti spaventati, sono stati proprio i media. Renzi e compagnia hanno tranquillamente tirato dritto senza neanche accorgersene. Una critica, questa, che è anche – e soprattutto – un’autocritica. Nel percorso di costruzione della giornata del 12 c’eravamo anche noi. Nonostante i dubbi sulla piega che andava prendendo la manifestazione, la scarsa chiarezza degli obiettivi politici e delle parole d’ordine, continuiamo a credere che in momenti come questi la soluzione non sia la ritirata strategica. Oltretutto, non neghiamo che un piano simbolico attorno al quale aggregare idealmente un processo politico sia necessario. Anche per questo, a volte, il *palazzo* ha la sua importanza. Ma allo stesso tempo, a mente fredda, dobbiamo anche saper cogliere quelli che secondo noi sono errori da non ripetere, perché hanno già segnato una stagione di lotte e ne hanno determinato la sconfitta. Ed è dalla metabolizzazione di quella sconfitta che oggi si propone giustamente di ripartire questo movimento.  

Come quindici anni fa qualcuno si sforzava di dire che il potere non risiedeva in quelle zone rosse, in quei vertici, in quella celebrazione politico-mediatica, ma in un potere sociale del capitale, diffuso, reticolare e pervasivo di ogni ambito economico-sociale dell’organizzazione dei rapporti di produzione (soprattutto risiedeva, oggi come allora, nel possesso di quei rapporti!), oggi il potere non risiede in quei palazzi ministeriali presi di mira dall’attuale dinamica dell’assedio. Anche fosse stato nel pieno del suo lavoro quotidiano, non è in quel palazzo che vengono decise le sorti delle classi sfruttate, e non è violando quella protezione che le suddette sorti produrranno uno scatto in avanti. Riproporre in sedicesimi quell’errore di valutazione può essere fatale per questo nuovo movimento, che invece sta riuscendo a liberarsi di alcune tare del passato. Mutatis mutandis, ricordiamo cosa scrisse prima e meglio di noi Wu Ming, operando quell’opera di metabolizzazione che oggi rischia di essere dimenticata per strada:

Quella fallacia avrebbe avuto conseguenze pesanti. Stavamo scambiando le cerimonie formali del potere per il potere stesso. Stavamo facendo lo stesso errore di Müntzer e dei contadini tedeschi. Avevamo scelto un campo di battaglia e una presunta giornata campale. Stavamo andando tutti a Frankenhausen.

Non è un caso che i protagonisti di quell’epoca siano sabato tornati in piazza forti di tutta la loro esperienza, sia politica che “militare”. Perché il piano riproposto sembra scivolare esattamente verso quelle dinamiche, verso quell’orizzonte politico: la sommossa moltitudinaria verso i simboli del potere. E’ quello il loro terreno, perché sono coloro che in quegli anni lo hanno teorizzato e praticato per primi e con più coerenza. Non possiamo, ripetiamo, aver criticato politicamente per anni questa determinata impostazione per poi riproporla oggi, che invece dovremmo ripartire da altre basi e muovere verso nuovi orizzonti (soprattutto: avere un orizzonte politico  alternativo, proprio ciò che mancava al movimento no-global).

Questo ragionamento non punta a disconoscere il livello metaforico e ideale che certe scadenze e certi simboli, per quanto effimeri, possano avere nella formazione di un immaginario di opposizione e di classe. Anzi, proprio noi nel corso degli anni abbiamo lamentato la mancanza, e ci siamo attivati per la costruzione di un nuovo immaginario di classe, che potesse poggiare anche su eventi dirompenti, memorie collettive, narrazioni epiche di episodi centrali delle lotte politiche delle popolazioni sfruttate. Ma questo piano può facilitare il compito, non sostituire la realtà. La realtà, oggi, è che il potere politico, dunque anche quello economico, risiedono altrove dai palazzi del potere formale. Il potere politico risiede nelle istituzioni europee, quei luoghi che determinano quale specifico modello di produzione avremo nei prossimi anni. E quelle istituzioni sono innervate da una visione politica strategica, potata avanti, in Italia, dal Partito Democratico. Economicamente, queste posizioni coincidono e sostanziano la concentrazione dei capitali nelle mani di multinazionali operanti in regime di monopolio od oligopolio, soprattutto nei comparti della logistica, della grande distribuzione, dell’energia. Questi sono i nemici politici: la UE, il PD, le multinazionali. Questi tre lati del perverso triangolo politico-economico determinano il nostro mercato del lavoro, il nostro modello di produzione, la nostra precarietà, la scomparsa dello stato sociale, la reintroduzione di forme sempre più marcate di estrazione assoluta di profitto attraverso il ritorno al lavoro servile, sottopagato e a cottimo. E potremmo continuare. Non questo o quel ministero di un insignificante paese quale l’Italia, ma neanche di qualche paese più forte, preso singolarmente. E’ una visione politica quella che dobbiamo affrontare e combattere, non la burocrazia del potere. Non è assediando Renzi, Monti o Letta che il potere verrà scalfito nella sua marcia inarrestabile verso forme sempre più elevate di sfruttamento. In questo senso, dunque, non basta una semplice sommatoria di vertenze sociali. Serve una visione politica alternativa che le tenga insieme e che le faccia avanzare insieme.

A Torino, l’11 luglio, sarà necessario assediare e impedire il vertice contro la disoccupazione giovanile. Non è questo in discussione. In discussione è il percorso che porteremo avanti da oggi a luglio, e che porrà le basi per il lavoro politico dopo l’estate. L’11 luglio potrà essere una tappa del cammino di ricostruzione di una classe per sé, e allora sarà una tappa importante. Oppure potrà essere il culmine in cui verrà concentrata tutta la necessità di apparire mediaticamente dei singoli percorsi sociali. E allora avremmo perso un’altra occasione.