Lavori a scadenza, precari a vita
Cosa accade quando si liberalizzano i contratti a tempo determinato come nel decreto sul lavoro appena varato, come primo atto del Governo Renzi? L’esperienza della Spagna è molto utile a riguardo.
Esordisce così Tito Boeri su lavoce.info, sito di approfondimento di politica economica di cui è redattore, intervenendo (con non velato disappunto) nel dibattito sulle riforme proposte dal nuovo governo in materia di lavoro e in particolare sul Decreto Poletti. Sarà la delusione per la mancata conferma a ministro del lavoro e delle politiche sociali ipotizzata nell’ultimo totoministri, sarà che il neopremier ha ripreso e rimodellato l’idea del contratto unico “a tutele crescenti” pensata, tra gli altri, dallo stesso Boeri e anche già presentata in parlamento, fatto sta che l’economista di scuola Keynesiana, riformista ed editorialista di Repubblica pare non aver preso bene il Jobs Act. Tra i suoi diversi interventi, ad esempio, si è espresso su Repubblica dicendo in modo un po’ pittoresco che “Non è un’avventurosa e impegnata vita spericolata. È semplicemente una deprimente vita lavorativa segregata, da lavoratore di serie B, spesso a vita, condannato a non poter pianificare in alcun modo il proprio futuro…”. Su lavoce.info, riportando il dibattito sul piano politico-economico, ha invece riportato uno studio (di Garcia-Perez, Ioana Marinescu e Judit Vall Castello) in chiave critica sugli effetti delle riforme di liberalizzazione dei contratti a tempo determinato.
Pur non condividendone la lettura che ne viene fatta, lo studio è effettivamente interessante e riprende il caso spagnolo del 1984, quando il governo liberalizzò i contratti a tempo determinato eliminando il requisito che l’attività svolta nell’ambito di questo contratto dovesse avere natura temporanea e rendendo ammissibili ripetute proroghe dello stesso contratto. Un contratto che poteva durare tra i 6 mesi e i 3 anni, e al termine del quale i lavoratori potevano essere assunti o licenziati. Insomma un po’ come un pezzo di Jobs Act. Nel merito, Boeri riassume (con quasi sorpresa) gli effetti della riforma spagnola in questo modo: una vita lavorativa con più contratti temporanei, meno giorni di lavoro all’anno e salari più bassi. E grazie, verrebbe invece da dire a noi, visto che più che gli effetti negativi di una riforma malriuscita, queste sono proprio le cause della sua creazione. Infatti non ci si spiega a che dovrebbero servire questo tipo di provvedimenti se non proprio a ridurre il costo del lavoro e a incrementare la flessibilità – che da noi si chiama aumentare lo sfruttamento del lavoro e la precarietà – al fine di rendere le aziende più produttive e incentivarle ad assumere (per poi licenziare liberamente dopo poco, ma questa è un’altra storia).
In ogni caso, tenendo da parte la diversità di prospettiva, lo studio e i grafici che riportiamo di seguito mostrano la situazione prima e dopo la riforma del governo spagnolo del 1984, mettendo a confronto le caratteristiche occupazionali dei lavoratori nei due periodi dove quindi risultavano essere interessati o meno dal provvedimento.
Il primo grafico mostra come le persone entrate nel mercato del lavoro nel 1985, dopo la riforma (parte destra del grafico), hanno avuto nell’arco di 15 anni un contratto a tempo determinato in più rispetto agli individui entrati prima della riforma (parte sinistra del grafico).
Nota: numero medio di contratti accumulati in base all’anno di nascita
Le aziende spagnole hanno quindi effettivamente risposto alla riforma come desiderato e hanno utilizzato maggiormente i contratti a tempo determinato, che passano dal 10% degli anni ’80 al 30% dei primi anni ’90. Nello specifico, l’hanno fatto sia assumendo nuovi lavoratori grazie all’incentivo dato dai minori costi e vincoli dei contratti, sia rinnovando più volte contratti esistenti piuttosto che stabilizzare i dipendenti con altre forme contrattuali. In entrambi i casi, scaduto il termine, se il lavoratore serviva all’azienda bene, altrimenti pacca sulla spalla e nessun problema per l’azienda.
Inoltre, se di certo più contratti non vogliono dire più lavoro, l’articolo chiarisce anche come la somma di diversi contratti a tempo determinato non possa in nessun caso equivalere a uno a tempo indeterminato, né in termini di ore lavorate né di salari, e che la riforma ha allargato ancor più più il gap tra le due forme contrattuali.
Infatti, le persone entrate nel mercato del lavoro dopo la riforma hanno lavorato, a parità di altre condizioni, 313 giorni in meno nell’arco di 15 anni (21 giorni in meno all’anno). Non sorprende questo, considerando che con i contratti a tempo determinato le persone cambiano o perdono più spesso il lavoro e passano da un contratto all’altro e da un’azienda all’altra. Con passaggi tra disoccupazione e occupazione molto più frequenti e quindi con maggiori tempi spesi nella ricerca di nuovi lavori, che già di per sé sono lunghi e lo sono ancora di più in un tempo di crisi come quello attuale.
Dal punto di vista dei salari poi, gli individui che sono entrati nel mercato del lavoro spagnolo dopo la riforma (parte destra del grafico) soffrono una riduzione delle retribuzioni dell’11,8%. Di questo taglio dei salari solo una piccola parte può essere associata alla suddetta riduzione dei giorni di lavoro, andando a confermare il gioco delle tre carte mirato di fatto a ridurre il costo del lavoro e aumentare lo sfruttamento dei lavoratori. Perché se la riduzione del salario è di molto maggiore della riduzione delle ore lavorate, si parla evidentemente di una crescita relativa dei profitti per le aziende, e del plusvalore, per dirla alla Marx.
Nota: numero medio di mensilità accumulate in base all’anno di nascita
La riforma in Spagna ha quindi ottenuto il suo scopo e, con la giusta miopia riguardo alla situazione attuale del mercato del lavoro spagnolo, dalla prospettiva del nuovo governo analisi del genere non fanno che avallare la tesi che le riforme proposte siano la strada giusta e che l’impulso ai contratti a tempo determinato possa funzionare da incentivo all’offerta di lavoro e alla produttività delle imprese. Aggiungiamoci poi l’idea diffusa che comunque “meglio un lavoro di merda che nessun lavoro”, il sostegno dei sindacati confederali, la situazione di crisi economica e produttiva del paese e la mancanza di alternative, il tutto infiocchettato dalle belle parole e dalla discutibilmente bella faccia di Renzi, e l’ennesima riforma sul (o contro il) lavoro è fatta.
Forse i lavoratori a cui hanno il coraggio di dire che sono diretti questi provvedimenti dovrebbero iniziare a farsi due domande e capire cosa ci sia di concreto dietro agli slogan. E’ importante comprendere che il governo tecnico di Renzi, come prima quelli di Letta e di Monti, sono la cinghia di trasmissione di politiche che vengono decise altrove: a Bruxelles. E la loro permanenza al governo o meno si misura nella capacità oggettiva di portare a termine quelle riforme che, come dicono loro, “l’Europa ci chiede”. Le due cose vanno tenute insieme e sono una subordinata all’altra. Oggi è impossibile sconfiggere la precarietà e cambiare un futuro che sembra già scritto senza superare l’Unione Europea.
Anche per questo il 12 Aprile scenderemo in piazza per provare insieme a rompere la gabbia.