Cosa si muove nel palazzo
La sostituzione di Letta con Renzi in realtà cambia poco del quadro generale in cui ci troviamo. Le dinamiche economiche e politiche che hanno portato al fallimento del governo Letta sostenendo la candidatura di Renzi sono le medesime che prima avevano sostenuto Letta stesso, e ancor prima Monti, e che da anni promuovono l’operato di Napolitano quale estremo tutore del progetto europeista neo-liberale. Insomma, dovremmo stare attenti a leggere in ogni cambio di facciata del “palazzo” un cambiamento di fase o una nuova strategia politica. Ciò che si muove in superficie è fatto proprio per celare ciò che avviene in profondità. In questo caso, delle riforme politiche imposte dall’Unione Europea hanno trovato delle difficoltà d’applicazione con il governo precedente; la politica, adeguandosi, ha scelto quella figura capace di far passare l’indirizzo privatizzante verso il quale marciano spedite destra e “sinistra”. Non si tratta di un “complotto”, nel senso tecnico del termine. Non è stato deciso cioè a monte, in qualche segreta riunione, chi e quando doveva o dovrà governare in Italia di qui ai prossimi anni. Quello che è stato deciso, non in riunioni segrete ma nelle esplicite dichiarazioni di tutti i programmi di governo dei maggiori partiti liberali, è il quadro generale. Come attuarlo è la funzione della dinamica politica, che attraverso il proprio percorso ad ostacoli individua di volta in volta la forma appropriata. Se questa non riesce a trovarla, poi, subentrano pressioni internazionali volte a raddrizzare la rotta.
Insomma, Renzi non è l”uomo dei mercati”, o come lo si voglia denominare, opposto al governo Letta, o a Monti o a qualcun altro. O meglio, lo è nello stesso senso in cui lo sono stati Letta e Monti. Da questo punto di vista, l’anomalia italiana era costituita da Berlusconi, in quanto espressione politica di una composizione sociale uscita sconfitta dal progetto europeista e non più in grado di governare un paese che secondo le indicazioni dei principali partiti doveva andare in una direzione opposta a quella prospettata da Forza Italia. Sia chiaro, non stiamo recuperando una qualche forma di berlusconismo in chiave “antieuropeista” da opporre ai governi centrosinistri, quanto leggere alcuni scontri sociali avvenuti all’interno della borghesia, analizzare chi sta vincendo e chi sta perdendo per capire quale tipo di opposizione fare e contro quale modello di borghesia.
Come diceva Alessandra Daniele in uno dei suoi sempre geniali pezzi su Carmilla, quello di Renzi è l’ennesimo cambiamento di facciata: “E’ per questo che è stato allevato e ingrassato dai suoi sponsor: mangiare ed essere mangiato, cuocere coreograficamente in quel microonde – divorando tutto il contorno – finchè, come Letta, non sarà rimpiazzata da un altro frontmen” (qui). Alessandra Daniele coglie un punto decisivo nella sua caratteristica ironia, che molte volte diversi analisti della sinistra non colgono: non sono i cambiamenti della superficie a determinare la sostanza delle dinamiche sociali che li producono. Detto in altri termini, non c’è un’autonomia del mondo della politica slegato dagli interessi materiali che questa politica rappresenta. Una volta individuati questi interessi, si possono analizzare le espressioni politiche che li rappresentano. Non sempre è così, ma oggi, nel contesto della politica europeista, è decisamente così.
Nella sostanza, finchè il progetto europeista andrà nella direzione della costruzione di un polo imperialista concorrente a quello statunitense, basato sulla grande concentrazione di capitale, la rappresentanza politica tollerata all’interno del contesto dell’Unione Monetaria sarà solo quella interna al Partito Socialista Europeo o al Partito Popolare Europeo. I meccanismi di correzione di eventuali esperimenti politici devianti sono stati messi in campo in questi anni abbastanza platealmente: attacco finanziario al paese problematico, con conseguente commissariamento politico. Anche la vicenda Renzi non fa altro che dimostrare questo assunto. Da una parte, a Renzi è stata data mano libera nel pensare i nomi più fantasiosi per i più inutili ministeri possibili. Ma Napolitano e Draghi sono stati chiari: al ministero dell’ambiente o a quello dei rapporti col Parlamento ci puoi mettere anche topo gigio, ma il ministero dell’economia lo decidiamo noi, perché è quello l’unico piano che determina le politiche di un paese, e quel piano non lo si può più decidere nel proprio Stato nel rapporto tra governo e parlamento, ma nel consesso europeo nel rapporto tra BCE e Commissione. Non che Renzi fosse un soggetto “pericoloso” in questo senso. Tutte le sue proposte economico-sociali vanno esattamente nella direzione europeista neo-liberale. Meglio però essere chiari, in ogni caso. E così come quello di Monti venne definito un governo da “rotary club”, non di meno lo sarà quello di Renzi. I nomi proposti vengono sempre dal solito mondo della grande imprenditoria privata o dalle tecno-strutture europeiste volte a difendere il progetto imperialista. Bini Smaghi, Lucrezia Reichelin, Luca Di Montezemolo; e ancora: l’amministratore dell’ENI, poi quello dell’ENEL, per non dire di Della Valle o di Oscar Farinetti, per non parlare di Corrado Passera. Il mondo dell’impresa insomma non ha più bisogno dell’intermediazione della politica per portare avanti i propri interessi. Ormai si rappresenta da solo, nominandosi in parlamento e facendosi passare come “nuovo che avanza”, se non come “società civile” che finalmente prende il posto della politica.
Questo il futuro che ci aspetta. L’importante è capire che non sarà Renzi o Letta a determinarlo, ma i propri referenti economici. Finchè questi guideranno tale progetto, che ci sia Renzi o qualcun altro, non costituirà alcun cambio di fase o fuga in avanti nel processo in corso: semmai, un aggiustamento di tiro. Ed è per questo che il nostro discorso politico non deve più guardare alle rappresentanze politiche con gli occhiali del passato, distinguendo fra una “sinistra” socialdemocratica e una destra “liberista”, o “conservatrice”. Questi canoni hanno definitivamente fatto il loro tempo (o almeno, lo hanno fatto in questi tempi). Oggi c’è un unico campo politico del grande capitale, e c’è una borghesia marginale e in via di dissoluzione che ancora esprime sue propaggini politiche. Manca il terzo incomodo, e cioè una rappresentanza politica del mondo del lavoro salariato. Ma per quella la sola analisi non può bastare.