Le frontiere dell’Unione Europea
Dovremmo stare bene attenti a scambiare l’impeto democratico che sembrerebbe scuotere le istituzioni europee a seguito del referendum svizzero sulla reintroduzione di frontiere e quote fisse di stranieri presenti sul proprio territorio. Le strade della ragionevolezza sembrerebbero essere dalla parte dell’Unione Europea e contro la Svizzera. Ed è altrettanto sicuro che la scelta referendaria svizzera sia chiaramente un favore alle politiche xenofobe di quel paese. Quando parliamo di politiche xenofobe dovremmo in ogni caso stare attenti al contesto, visto che per molto meno in Italia si strepita all’invasione allogena (l’Italia ha un tasso di migranti di circa il 9%, quello svizzero è del 25%). Ma non è questo il punto, e rimane evidente il tentativo della destra svizzera di servirsi delle paure sociali alimentate dal circuito mediatico per imporre le proprie politiche razziste. Il punto è il falso anti-razzismo europeista, che in questa vicenda rischia di apparire la posizione avanzata, o comunque differente e più democratica, rispetto alle politiche della destra svizzera.
L’Unione Europea marcia a passo di carica verso la costruzione del super-Stato transnazionale. E questo perché la costruzione di un polo imperialista competitivo non può più reggersi sugli spazi ridotti dei singoli Stati europei. Serve un territorio più vasto, ma soprattutto serve una popolazione più numerosa, tale da reggere il processo di concentrazione del capitale che caratterizza questa Unione Europea. In questo senso, qualsiasi accadimento vada in direzione contraria alla costruzione dell’entità statale sovranazionale è visto col fumo negli occhi. Le posizioni politiche in seno alla UE chiariscono chi sono i protagonisti di questo progetto. Da una parte, tutti quei partiti che hanno applaudito, o nei fatti appoggiato, il referendum svizzero, sono gli stessi che hanno una composizione sociale che ha tutto da perdere dal progetto europeista: commercianti, mondo delle piccole e medie imprese, partite iva, tendenzialmente anti-statale e tendenzialmente sul filo dell’evasione fiscale, perennemente in lotta contro le politiche economiche dello Stato. Questo agglomerato sociale (che racchiude più classi, anche molto differenti economicamente), trova i propri rappresentanti nella Lega Nord, in Forza Italia, nel Front National di Marine Le Pen, e in tutti quei partiti espressione di quella borghesia che nel conflitto tra mondi della produzione differenti ha perso. Dall’altra parte della barricata la borghesia vincente, che si è imposta nel modello di sviluppo e che costituisce la base economico-sociale che sta costruendo questo modello d’Europa: la grande impresa, multinazionale, a grande capitale fisso, molto spesso legata alle politiche economiche dello Stato, legata a un modello competitivo basato sulla dislocazione industriale, generante importanti economie di scala, ecc. Questo modello economico ha i suoi referenti nei partiti appartenenti alle grandi famiglie politiche europee, quella del Partito Popolare e del Partito Socialista Europeo.
E’ evidente che l’obiettivo di fondo della costruzione di un super-Stato europeo non può tollerare chiusura di frontiere, perché la chiusura della frontiere sarebbe il primo passo verso un ritorno all’autonomia fiscale, all’autonomia bancaria, all’autonomia finanziaria, tutta una serie di politiche d’indirizzo economico che il modello europeo sta cercando di accentrare nei propri dispositivi economico-finanziari. Ad esempio un rallentamento dell’immigrazione svizzera porterebbe ad alzare il livello dei salari, che oggi rimangono bassi proprio perché il padronato svizzero sfrutta manodopera non sindacalizzata, straniera e che si accontenta di paghe che uno svizzero difficilmente accetterebbe. I lavoratori in Europa devono al contrario continuamente circolare, supplendo alla richiesta di manodopera in una determinata regione e svuotandone un’altra colma di richieste, e questa circolazione dev’essere sempre just in time, mai fissa, sempre disponibile al cambio stagionale di residenza, ecc.
Sia chiaro, tutte dinamiche interne a specifici modelli di capitalismo, per cui non c’è una scelta di merito nella diatriba. Può vincere questo o quel modello di borghesia, ma non può avanzare in questo senso il mondo del lavoro, perché le diverse borghesie, divise nel proprio scontro interno, si ritrovano però unite nel colpire il livello salariale dei lavoratori, e in questo senso le dinamiche politiche italiane dovrebbero chiarire questo aspetto: divise sul terreno dell’antiberlusconismo, destra e “sinistra” si ritrovano nello smantellamento delle conquiste del mondo del lavoro. Insomma, non stiamo dicendo che l’uno è meglio dell’altro, ma specificando che certe posizioni apparentemente democratiche in realtà riflettono degli interessi politici ed economici che nulla hanno a che fare con presunti intenti anti-razzisti. E queste posizioni appaiono democratiche nonostante chi le professi abbia in questi anni demolito ogni forma di democrazia all’interno del contesto politico europeo. La costruzione del super-Stato avviene cioè ricalcando la cornice tipica degli Stati nazionali (sostanzialmente, il potere di controllo e repressione unito alle gestione centralizzata delle dinamiche economiche), ma svuotandone l’elemento della comprensione delle masse al suo interno (non è più prevista una rappresentanza di interessi basata sulla mediazione politica riformista). In questo senso, allora, tra referendum svizzero e apparenti rimostranze europee, non c’è un bene o un male, ma uno scontro fra modelli produttivi diversi, da interpretare bene per capire come e dove lavorare politicamente.
Questa è una prima riflessione sulla vicenda svizzera. A breve una seconda parte prodotta dai compagni del collettivo “La scintilla” presente nella Svizzera italiana.